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GARGIONE

GLI ANGELI, LASSU’, QUALCUNO MI AMA, PARTE PRIMA

GLI ANGELI
LASSU’, QUALCUNO MI AMA
STORIE VERE

by Gianni Gargione.



IO E GLI ANGELI

come è nato questo libro

È il mio terzo libro sugli angeli perché è … giusto darne testimonianza.

I primi due sono stati un grande successo (il primo, stampato in più edizioni, ha addirittura superato le 120.000 copie vendute!), ciò mi ha fatto capire che non è vero che la gente ama sentire soltanto fatti di cronaca nera, storie di violenza e di corruzione, ma che nel mondo c’è tanto bisogno di testimonianze di fede e di amore.

Per chi ancora non mi conoscesse, non provengo da ambienti clericali o da associazioni religiose o gruppi di preghiera, né frequento assiduamente la chiesa. Il mio incontro con gli angeli è avvenuto in modo casuale. Non credevo nell’esistenza di questi esseri celesti, poi un giorno una mia amica, di sua spontanea volontà, mi consegnò una storia bellissima, dicendomi:

  • Ho saputo che vuoi scrivere un libro sugli angeli, questa è la mia testimonianza, è la pura verità.

Restai sorpreso. Era vero che volevo scrivere qualcosa sugli angeli, ma ancora non ne avevo parlato con nessuno.

Allora pubblicavo con successo volumi di psicologia, ma da un po’ di tempo ero rimasto incuriosito da alcune esperienze che mi avevano raccontato e da un libro, quello della scrittrice americana Anderson sugli angeli. Tutto ciò aveva lasciato nella mia mente “un tarlo” che, di tanto in tanto, mi brulicava dentro.

La cosa che mi sorprese di più fu che una proposta del genere mi provenisse da una persona come Maria, una donna molto colta, equilibrata, matura, che non soffriva assolutamente di problemi psichici, ne frequentava tutti i giorni la chiesa o faceva parte di gruppi religiosi. Anzi, da quello che sapevo io era piuttosto scettica nei riguardi delle religioni. Se poi la sentivi parlare dei preti o dei vescovi, in particolare di uno, di cui non vi faccio il nome, era meglio turarsi le orecchie se non si voleva udire qualche parolaccia.

Insomma non era di quelle persone che ogni tanto vede la Madonna o parla con i santi. La conoscevo da anni, non aveva mai sofferto di allucinazioni ed io sono abbastanza esperto in questo campo, avendo scritto un libro sui disturbi mentali ancora oggi in commercio.

Ritornato a casa lessi con puerile curiosità la sua storia. Alcuni anni prima era stata investita da un camion. Da come erano andate le cose doveva essere morta o almeno rimasta gravemente ferita, invece ne uscì quasi illesa. Un miracolo che nemmeno i medici si seppero spiegare.

Un uomo con una maglietta bianca l’aveva soccorsa e forse guarita, ma di lui non si riuscì a trovare traccia nemmeno dopo averlo cercato per anni.

Chi l’aveva salvata? Chi aveva protetto il suo corpo da quella botta tremenda? Ancora oggi ella non aveva trovata una risposta a queste domande.

La sua testimonianza, quindi, mi colpì perché veniva da una persona matura, equilibrata, serena, insomma non da una psicolabile. Fino ad allora avevo ritenuto che queste esperienze capitassero solo a persone visionarie, facilmente suggestionabili o molto emotive.

Ma io, ancora scettico, le telefonai per averne conferma. Ancora una volta, mi ripeté che era tutto vero e che non si trattava di un’esperienza raccolta da amici, ma vissuta in prima persona.

Riattaccai la cornetta. Ero ancora perplesso, ma dentro di me si era insinuato un dubbio tremendo. Sapevo che Maria non era di quelle persone che si inventano frottole o si crea un legame immaginario con un essere superiore per sfuggire a una vita di frustrazione.

Da allora, mosso dalla curiosità di sapere, cominciai a indagare e a chiedere in giro. Fu così che in pochi anni raccolsi molte storie simili. Ma ancora non era scattata in me la molla che mi convincesse a saltare il fosso … cioè a diventare un fervido ammiratore di queste meravigliose creature celesti.

Poi accadde anche a me una storia incredibile, un’esperienza traumatica in cui fui salvato da un motociclista spuntato chissà da dove (è tutto narrato nella prima testimonianza riportata su questo libro), da allora non ebbi più dubbi.

Decisi che dovevo selezionare le storie che avevo raccolto e pubblicare un libro. Cestinai tutte quelle che mi sembravano poco attendibili, come pure scartai le testimonianze di tutte le persone facilmente suggestionabili, di quelle che passavano le giornate in chiesa e di quelle affette da una grave malattia.

Nacque così il mio primo libro sugli angeli, era l’estate del 2001. Fu un grande successo: più di 120.000 copie vendute, in 4 anni!

E si trattava di un piccolo editore con una distribuzione alquanto carente!

Nell’introduzione a questo volume spiegavo che non avevo mai creduto negli angeli, anzi non ero mai stato un fervido credente. Sono stati gli angeli a cercare me, nel senso che tutto è cominciato quando delle persone, sapendo che ero uno scrittore, mi avevano affidato le loro storie per farle conoscere alla gente, perché era giusto darne testimonianza.

Non solo, ma quelle storie, scritte in una forma letteraria eccezionale tanto da lasciare anche me stesso sorpreso (non ho mai scritto opere di narrativa, sempre di saggistica), hanno suscitato su di me un fascino misterioso al punto che ancora oggi, spesso passo del tempo a rileggerle.

Sono storie di speranza e di pace, che parlano d’amore e d’altruismo in un mondo in cui sembra regnare solo l’egoismo e la cattiveria, in cui la violenza e la droga sembrano aver vinto sull’uomo. Perciò, scorrere con lo sguardo quelle pagine, rivivere quelle storie è come rifugiarsi in un’oasi di serenità. Sapendo che sono storie vere, infatti, quando le leggo mi commuovo sinceramente.

Altri miei lettori hanno confermato queste mie impressioni.

È bello sapere, che nel mondo non c’è solo il male, che non siamo soli su questa terra, che accanto a noi, il Signore nella sua grande bontà ha posto un angelo, che ci segue e ci guida.

Pensavo che fosse solo una mia idea, ma dopo la pubblicazione del mio primo libro sugli angeli scoprii che fossero in molti a pensarla come me e che la gente ama sentire queste testimonianze perché non è vero che Dio è morto, come sostengono certi filosofi francesi. Dio è con noi ogni giorno nelle case, nelle strade, nelle fabbriche, dappertutto, manifesta la sua presenza con tanti piccoli eventi straordinari. E gli angeli sono le braccia del Signore con cui egli stringe a sé il mondo e dà un po’ di sollievo ai dolori del genere umano.

L’antico testamento fu il periodo in cui Dio padre, di persona, manifestò la sua volontà guidando il popolo eletto verso la terra promessa e impedendo che essi perdessero la vera fede. Poi venne l’epoca del figlio, Gesù, il Dio fatto uomo che si incarnò per completare la legge di Mosè e per diffondere nel mondo la buona novella. Successivamente venne il periodo dei santi, prima tra tutti i santi Pietro e Paolo, che predicarono in nome del Signore e fecero tanti prodigi.

Non sono un teologo, ma sono convinto che questa è l’era degli angeli, lo strumento scelto dal Signore per manifestare la sua volontà ed essere presente in mezzo a noi.

È stato questo motivo a spingermi a raccogliere altre storie, non i soldi (i guadagni sono davvero irrisori, si riesce a recuperare solo le spese con la pubblicazione di questi libri). Volevo che la gente sapesse e credesse. La fede si diffonde con le opere, non con i discorsi dei preti che dal pulpito dicono sempre delle stesse cose.

Non solo, ma credo di aver dato più felicità io con questi libri, che tanta gente distratta che fa la carità ai mendicanti seduti all’ingresso di una chiesa.

È stato così che è nata l’idea di fare un altro volume sugli angeli. Questa volta raccogliere materiale è stato molto più facile.

Ero ormai conosciuto come un “angiologo”, cioè uno scrittore che si interessa di angeli e perciò molti mi hanno raccontato la loro storia di persona, anche se la maggioranza mi ha scritto tramite una comune lettera o via internet.

In tutti questi anni ho ricevuto complessivamente più di 300 lettere, per l’esattezza 328, persino dalla lontana Trieste o dalla calda Catania. E ancora ne continuano ad arrivare. La maggior parte erano donne, ma non mancavano vecchi o giovani, persino adolescenti desiderosi di narrare gli eventi straordinari di cui erano stati protagonisti.

Con calma e serenità, ma anche con grande scetticismo, ho selezionato le varie missive. Molte lettere erano semplici storie di una vita sofferta, di pene, dolore e sofferenza, ma non c’era traccia alcuna di un intervento divino. Altre volte erano storie poco significative: una visione, una guarigione improvvisa, la sensazione di una presenza extraterrena, ma non c’era una vera storia dietro e perciò ho dovuto cestinarle.

In buon numero di casi, si trattava di persone psicolabili, che vedevano esseri extraterreni o che avvertivano presenze misteriose, ma quasi sicuramente erano frutto della loro fantasia. Sono un autore di successo di libri di psicologia e perciò conosco bene il campo. In vari anni di ricerca ho sviluppato un’estrema sensibilità che mi fa riconoscere al volo, già da pochi indizi, una persona che soffre di depressione o è affetta da disturbi mentali o è soggetta ad allucinazioni.

Inoltre gli eventi di origine divina reali sono rari, casi eccezionali. Chi mi veniva a dire che aveva due o tre storie di angeli da riferirmi o che ogni tanto vede la Madonna, faceva scattare in me subito una reazione di scetticismo. Non credo che gli angeli se ne vadano in giro per il mondo a perdere tempo, perciò credono che i loro interventi sono assolutamente mirati e rari. In altre parole può accadere una volta di vedere un angelo o di essere salvati da uno di questi esseri celesti, ma se ciò accade più volte io cominciò a pensare che si tratta di una persona … che ha dei problemi …

Così ho pubblicato il mio secondo libro, con un editore di Milano, che però ha avuto una larga diffusione solo al nord ed è rimasto nelle librerie per poco tempo, poco più di sei mesi.

Credevo conclusa la mia esperienza in questo settore, ma le lettere… continuavano ad arrivare ed altre persone continuavano ad affidarmi le loro testimonianze. I miei due primi libri avevano resa manifesta la mia volontà di occuparmi degli angeli e perciò sono stati in tanti a volermi parlare di questi meravigliosi esseri celesti. Tra questi persino gente che conoscevo da anni e che lavorava come me nella stessa scuola (sono un insegnante delle Scuole Superiori).

Quando ho notato che il materiale a mia disposizione era abbastanza copioso, ho rifatto lo stesso percorso del secondo libro. Ho incominciato a selezionare le testimonianze da inserire nel libro e a dare loro una forma letteraria consona in modo che risultassero non solo leggibili, ma avvincenti e capaci di tenere inchiodato il lettore.

E qui che è cominciato il mio lavoro di scrittore.

Una volta terminata la prima stesura, come per gli altri due libri, ho contattato telefonicamente le persone che mi avevano mandato le storie.

L’ho fatto solo in questo momento per un motivo semplicissimo, perché, come qualsiasi scrittore professionista sa, è soltanto quando si va a mettere nero su bianco che ci si rende conto di particolari mancanti, di fatti che non collimano, di eventuali contraddizioni ecc.. Così per ogni racconto ho stilato un elenco di obiezioni da fare e di cose da chiedere o da chiarire. Le telefonate, infatti, sono servite soprattutto per acquisire maggiori informazioni e … farmi un’idea di chi aveva vissuto la testimonianza in prima persona.

A questo punto ho proceduto con una seconda stesura. Quando il volume mi è sembrato che fosse scritto nel modo giusto, ho telefonato di nuovo alle stesse persone per rileggere la storia definitiva, in modo da essere sicuro di non aver cambiato il senso o i contenuti.

Volevo essere certo di riferire solo eventi realmente accaduti.

Una cosa che ho potuto verificare nei contatti avuti per la stesura del libro è che qui da noi, in Italia, raramente la gente è ansiosa di narrare gli eventi straordinari di cui è stata protagonista. Al contrario, le persone quasi sempre erano titubanti a parlare di certi eventi, perché temevano di non essere credute o peggio derise.

Ho incontrato persone che avevano taciuto la loro storia da anni, cioè non ne avevano mai parlato con nessuno per paura di essere prese per pazze.

Ciò, però, mi ha tranquillizzato. È un’altra caratteristica che distingue le storie vere da quelle false. Chi soffre di protagonismo, va sbandierando al vento di aver visto un angelo quasi sicuramente cerca di mettersi in evidenza … in realtà non ha visto niente o ha creduto soltanto di vedere, vittima della sua fantasia malata.

Ho letto pubblicazioni sugli angeli di scrittori americani che riportavano nomi e indirizzi delle persone che avevano segnalato le loro te

stimonianze, da noi è diverso, la maggior parte della gente ha scritto: “pubblichi questa storia, ma non faccia il mio nome”.

Solo pochi hanno accettato di essere citati con i propri dati anagrafici. Ma ciò per me è stato motivo di conforto, significava una sola cosa: che si trattava di testimonianze autentiche!

Diffido, infatti, degli scrittori americani; molti di essi hanno pagato per essere autorizzati a pubblicare le storie che avevano raccolto e quando girano soldi sento sempre puzza di corruzione. Non ci vuole niente a inventarsi una storiella o ad abbellire un evento per offrirlo ad un autore e rimediarci così 1.000, se non 5.000 dollari.

Come pure sospetto fortemente delle persone esibizioniste o di coloro che tentano di trasformare in business il mistero di una statua che piange.

I miracoli veri restano nell’umiltà, sono unici e vissuti dalle persone semplici.

Le testimonianze, infatti, che riporto in queste pagine, sono di gente comune che non aveva nessun motivo per mentire. Che interesse può avere un uomo o una donna che chiede l’anonimato, non vuole soldi, né ricompense a inventarsi delle storie?

Per tutti questi motivi, ma soprattutto perché ho eliminato con cura le lettere di tutte le persone psicolabili, tranquillizzo il lettore che si tratta di testimonianze vere e che niente è stato inventato o travisato. L’unica licenza che ci siamo permessi, è di darle una forma letteraria consona per rendere la lettura più emozionante.

IL LIBRO DEI BUONI SENTIMENTI

STORIE VERE DI ANGELI

UN AIUTO PROVVIDENZIALE

Per alcuni anni sono andato in vacanza in una città di mare nel Nord del Brasile: Fortaleza. Avevo conosciuto per caso questa bellissima città. Un anno era andato a San Paolo a casa di una mia cugina; solo che capitai nel momento sbagliato perché lei stava partendo per Fortaleza, dove possedeva una casa per le vacanze.

Non vi nascondo che mi spaventava un po’ l’idea di restare quasi 20 giorni da solo in quella grande metropoli, un’enorme città pieni di problemi e poco attrezzata per i turisti. Era la mia prima volta che andavo in Brasile e ancora non conoscevo la lingua, la città e gli usi, né come muovermi per evitare inutili rischi. Il Brasile, si sa, è un paese molto pericoloso.

Mia cugina intuì le mie perplessità e mi suggerì:

  • Perché non vieni con noi? Fortaleza non è come qui, ha mille attrazioni per i turisti, tante spiagge

Al mio silenzio lei continuò

  • Noi andiamo in auto e ci mettiamo circa 4 giorni, ma ci fermiamo per la strada, tu prendi l’aereo. Ti veniamo a prendere all’aeroporto, la mia casa è proprio lì vicino.

E così feci, restai ancora alcuni giorni per visitare San Paolo, poi partii facendo una tappa intermedia a Brasilia, in cui però rimasi solo mezza giornata giusto il tempo per ammirare qualche pezzo di architettura di Oscar Niemeyer.

Poi atterrai a Fortaleza, trovai mia cugina e suo marito all’aeroporto che mi condussero nella loro casa di Rua Senator Pompeo. Incominciai a visitare questa città che mi piacque subito perché ha un bellissimo lungomare, vicino al centro della città, la sera pieno di vita, dove si passeggia fino a tarda notte.

La gente, come in altre città brasiliane, vive all’aperto e io sono un animale da strada in quanto odio rintanarmi nei pub, a bere birra, o nelle discoteche ad ascoltare stupida musica assordante. Invece preferisco sedermi fuori, vicino a un tavolino a bere qualcosa e a chiacchierare con gli amici.

Un’altra cosa che amo di questa città, che non vedo da molti anni, è il suo clima equatoriale, in pratica qui è estate tutto l’anno. Benché mi recassi là quasi sempre a luglio o agosto, cioè due mesi pienamente invernali per quella latitudine, mi facevo il bagno senza difficoltà. Uscire per strada tutto l’anno con vestiti estivi e con le maniche corte è un pensiero che mi alletta molto. Non nego che accarezzo il sogno, una volta che sono andato in pensione, di passare molti anni della mia vecchiaia in questa allegra città.

Anche il sole è puntuale tutto l’anno, sorge verso le 6.30 di mattina e tramonta alle 18.30 di sera. Niente giornate invernali buie, corte, in cui già alle quattro del pomeriggio calano le tenebre, come da noi.

Nel mio ultimo viaggio, in cui sono stato via circa un mese, mi è successo un fatto straordinario il cui ricordo, ancora oggi, mi lascia perplesso. Non so se gridare al miracolo o alla coincidenza. Ma giudicate voi, io riferirò la semplice verità.

Come tutte le sere mi ero recato sul lungomare di Fortaleza per incontrarmi con degli amici, quasi tutti italiani, o prenotarmi per un’escursione a qualche spiaggia vicina, il giorno dopo. I dintorni della città, infatti, sono pieni di spiagge bellissime come quella di Praia das Fontes.

Quell’anno ero andato in vacanza da solo in quanto non avevo trovato nessun amico libero da impegni lavorativi in quel periodo. La cosa non mi dispiaceva molto perché ormai conoscevo bene la città, avevo fatto delle amicizie, sapevo come muovermi e dove andare, anche se, poi alla fine, facevo sempre la stessa cosa: scendere sul lungomare.

Forse è l’età che avanza, ma sono diventato abitudinario e non amo molto le novità, perciò in vacanza di solito faccio una vita molto regolare. Così quell’anno, la mattina andavo alla spiaggia Praia de Futuro, alcuni chilometri fuori della città, la sera sul lungomare a passeggiare o a star seduto fuori a un bar all’aperto.

Quella sera era come tutte le altre volte. Ero stato a mangiare una pizza e a bere l’acqua de cocco, una bibita freschissima che apprezzavo moltissimo, in un locale proprio sul mare, il cui nome, mi sembra, era covo dei pirati.

La mia amica, Miriam, con cui ero stato fino alle undici era andata via. Le avevo trovato un taxi, pagato la corsa dando il suo indirizzo all’autista. Io, invece, rientravo in autobus. C’era, infatti, un comodissimo bus che dal lungomare mi portava proprio vicino casa, perciò era davvero uno spreco buttare altri soldi in taxi.

Quella sera aspettai l’autobus alla fermata, tardò un po’, ma poi arrivò.

Pagai il biglietto e mi sedetti comodamente sul sediolino davanti. Ci volevano circa 20 minuti per arrivare a casa e perciò mi rilassai completamente. Un po’ la stanchezza, un po’ l’ora tardi, un po’ la cena pesante; oltre alla pizza avevamo, infatti, mangiato anche dei frutti di mare, dopo un po’ mi appisolai.

Mi svegliai improvvisamente più tardi, non so dire quanto dormii. Guardai fuori dai finestrini, ma non riuscii a scorgere nessuno dei posti che conoscevo.

Dove mi trovavo? Ero già giunto a casa?

Se avevo superato la strada dove abitavo, potevo finire in un posto molto lontano, in quanto a Fortaleza, gli autobus facevano corse molto lunghe.

Mi girai indietro, data l’ora tardi era rimasto un solo passeggero. Chiesi a lui, ma non capii granché di quello che rispose, anche perché parlava un pessimo portoghese. Allora gli pronunciai lentamente due o tre volte il nome della strada dove dovevo scendere.

Lui sembrò aver capito e mi fece intendere che avevano passato da poco la mia fermata. Non mi restava che scendere alla prossima e poi tornare indietro. Mi precipitai all’uscita, bussai il campanello e dopo qualche minuto l’autobus si fermò.

Scesi con la sicurezza di essere vicino a casa, invece dopo neanche pochi metri mi resi conto di essermi messo in un bel guaio. Ero, infatti, in un posto sconosciuto e dall’aspetto poco rassicurante. Le case era basse e vecchie, le strade sporche e il manto stradale sconnesso, qua e là erano ammucchiate mucchi di spazzatura, forse i resti di un mercatino all’aperto.

Più avanti si intravedeva un incrocio che dava l’impressione di essere importante in quanto mi sembrò di scorgere dei fari di un auto, mentre dove mi trovavo era completamente deserto. Ma appena svoltato rimasi deluso, anche qui tutto fatiscente e senza un’anima viva. Di auto neanche l’ombra. Continuai a camminare poi capii: ero in un vecchio e degradato quartiere di Fortaleza, una favelas in muratura.

Era questo un covo di ladri e di delinquenti, una zona malfamata che tutti mi avevano consigliato assolutamente di evitare.

Un ricco turista occidentale in una casba sudamericana?

Mi vidi perduto, da un momento all’altro poteva uscire qualcuno con un coltello o con un’arma per rapinarmi. Sarei stato fortunato se si fossero limitati a prendermi i soldi, perché potevano anche uccidermi. Tanto le possibilità che avessero scoperto l’omicida erano quasi zero.

Non solo, ma dato che per sicurezza portavo sempre pochi soldi con me, avrebbero potuto darmi una coltellata perché non avevo abbastanza denaro in tasca.

Imprecai contro me stesso per aver fatto un errore così grave eppure ero stato sempre molto prudente. Sapevo che il Brasile era una terra pericolosa e prendevo ogni tipo di precauzione per evitare di subire violenza. Ma questa volta un po’ per caso, un po’ per distrazione mi ero messo davvero in un bel guaio.

Occorreva uscire da quel quartiere, ma come?

Le strade erano scarsamente illuminate e mi sembravano tutte uguali. Non avevo la benché minima idea dove mi trovavo e come uscirne. Dovevo chiedere a qualcuno, ma non c’era nessuno in giro e nessun locale aperto. Guardai l’orologio era quasi mezzanotte.

Di giorno in quella zona facevano un mercato e si poteva, con un po’ di prudenza e stando attento ai borseggiatori, circolare, ma di notte era una terra di nessuno. Forse nemmeno la polizia osava avventurarvisi.

Mi ripetei che era inutile piangere sul latte versato e che ora dovevo pensare ad uscirne, ci sarebbe stato poi il tempo per riflettere o per i sensi di colpa.

L’unica cosa era cercare una cabina telefonica e chiamare un taxi o la polizia. In tasca avevo una carta telefonica prepagata, ma poi … mi ricordai che l’avevo esaurita del tutto, telefonando in Italia. Ad ogni modo l’importante era trovare un telefono, può darsi che funzionava a monetine.

Camminai ancora un centinaia di metri, ma non incontrai anima viva. O dormivano tutti o la zona era disabitata di notte. Pensai che ci doveva essere pur qualcuno a cui regalare 100 realis* per farmi trovare un taxi o che accompagnare fuori da quella zona!

Mi ripetei che l’importante era di non perdere la calma, non ero ancora morto.

Girai ancora un angolo di strada e anche qui mi si presentò uno spettacolo desolante, strade buie, sporche e deserte. Non c’erano neanche prostitute in giro, promettendo loro dei soldi forse mi avrebbero aiutato.

Imprecai contro me stesso per non aver comprato una scheda telefonica brasiliana, come mi ero ripromesso, e averla messa nel mio cellulare. Avrei potuto chiamare un taxi.

Sì, un taxi sarebbe stata la soluzione migliore, ma se non trovavo il modo di chiamarlo, era difficile che ne avessi incontrato uno per caso. Quale taxi si sarebbe avventurato in una zona deserta in cui i turisti stranieri non venivano mai?

Proseguii, a passo svelto. A ridosso di un palazzo notai due giovani di colore nella penombra, seduti a terra, con le spalle appoggiate al muro. Pensai di chiedere aiuto a loro, ma poi notai che uno dei due aveva un laccio emostatico al braccio nudo. Si stava drogando.

Andiamo bene, dissi a me stesso. Quanto ci metteranno per rendersi conto che in giro c’è una facile preda da rapinare: un ricco turista europeo?

Uno dei due giovani mi notò col suo sguardo spento e accennò un timido sorriso beffardo.

Pensai subito che non erano pericolosi, perché ormai la loro dose di eroina ce l’avevano e nessuno al mondo poteva distoglierli dal fargli intraprendere il lungo viaggio che stavano iniziando. Se fossi incappato in loro un’ora prima, magari quando stavano cercando i soldi per comprarsi la solita dose, non sarei certamente qui a raccontarla.

Li fissai sicuro, con l’atteggiamento sprezzante di chi non aveva paura, mentre in verità me la stavo letteralmente facendo nei pantaloni. Quello che mi dava coraggio è il fatto che si stavano drogando e con quella schifezza nelle vene non potevano certo nuocere a nessuno.

Anche l’altro giovinastro mi vide, allungò un braccio indolente. Con l’indice puntato verso di me, fece il gesto scherzoso di spararmi con una pistola immaginaria.

Dalla bocca gli uscì una specie di verso: Bum! Bum!

Non gli feci caso e affrettai il passo. Fatti com’erano non sarebbero stati in grado neanche di alzarsi in piedi. E anche se ne fossero stati capaci, sarebbe bastato una spinta e sarebbero andati a terra.

Dopo un poco uscii in una specie di piazzetta, piena di sporcizia e di cartoni ripiegati l’uno sull’altro. Fu allora che, in preda al panico, cominciai a pregare:

  • Mio Dio, fammi trovare un taxi, mio Dio, fammi trovare un taxi!

Incominciavo a cedere anche sul piano nervoso. Una folle paura si

stava impadronendo di me. Sapevo, infatti, che si trattava di un quartiere molto vasto e che quindi potevo vagare anche per ore prima di uscirne. Ed io non avevo tanto tempo a disposizione.

Fino a quando mi sarebbe andata bene?

  • Signore, fammi trovare qualcuno che mi faccia uscire da questo incubo!

A un certo momento fui sul punto di mettermi a correre, ma pensai che poteva essere anche peggio. Per i cani, ma anche per la maggioranza degli animali, fuggire significava dare un segnale di paura e quindi era un incoraggiamento ad essere inseguiti. Certamente era lo stesso anche per gli uomini!

Inoltre, mi sarei stancato presto, meglio camminare svelto e trovare una strada dove c’era qualcuno.

Girai in un’altra strada e qui feci l’incontro che avevo temuto fin dall’inizio. Appoggiati a un muro vecchio e screpolato, 3 giovinastri chiacchieravano sottovoce, fumando delle sigarette o forse uno spinello. Uno di essi mi notò compiaciuto e fece segno anche agli altri, che si girarono.

Mi dissi, ci siamo. Speriamo che si limitano a prendermi i soldi.

Ripetei ancora quelle parole: “Signore un taxi, mio Dio un taxi!”

Rimasi un momento indeciso, proseguire significava finire in bocca al lupo, ma tornare indietro significava dare un segnale di paura e quindi ciò poteva incoraggiarli. Inoltre, dietro di me c’erano solo strade buie e deserte, mentre davanti potevo trovare una strada trafficata, che sarebbe stata la mia salvezza.

Decisi di far finta di nulla e proseguire, misi le mani in tasca per

prendere il portafoglio. Se mi avesse avvicinato, avrei dato tutto in cambio del favore di essere accompagnato fuori da quella zona. Forse non mi avrebbero ucciso, d’altronde una volta preso tutto il denaro, che serviva ammazzarmi?

Ma capivo che me lo dicevo per farmi coraggio. Quella gente non ragiona razionalmente, prima ammazza e poi decide il da farsi.

Avanzai ancora una diecina di metri, nella mente ripetevo come una litania sempre quelle due parole: “Mio Dio un taxi, mio Dio un taxi!”

Quando arrivai alla loro altezza, uno dei tre, che aveva un berretto in testa di pelle lucida e sul petto, che si intravedeva nudo sotto una giacca lucida aperta avanti, una pesante catenina a cui era appeso un grosso ciondolo di metallo, buttò la sigaretta a terra. I tre lasciarono il muro e lentamente si incamminarono verso di me, per tagliarmi la strada.

Mi vidi perduto, stavo per darmela a gambe, ma mi dissi che non sarei andato lontano.

Mi girai in cerca di una via d’uscita e all’improvviso vidi spuntare dietro di me una moto taxi. Sono motociclisti che fanno da taxi, ovviamente hanno un posto solo, sul sediolino di dietro.

Non so chi era o da dove era spuntato, ma non era il momento di fare domande, mi ricordo soltanto che aveva una casacca arancione con sul petto scritto “MOTO TAXI”. Mi gettai davanti alla moto, anche se non ce n’era bisogno perché si era fermato spontaneamente, come fosse venuto apposta per prendere me.

Con un salto, balzai sulla moto, dietro l’uomo, che partì di corsa. I tre uomini restarono con un palmo di naso. Lessi nei loro sguardi un’espressione di enorme delusione.

Tirando un sospiro di sollievo mi strinsi a quell’uomo che guidava la

moto, quasi a mostrarle la mia gratitudine. Mi aveva salvato la vita, presi fiato e poi gli dissi il nome della strada dove doveva portarmi. Lui non sembrò farci caso.

Una corsa breve, neanche 10 minuti; la moto a forte velocità, dato che le strade erano deserte, zigzagò per la città finché uscimmo da quella zona. Un quarto d’ora dopo scesi davanti casa mia. Salutai il portiere del condominio dove abitavo, che notai sulla guardiola e che mi conosceva bene.

Mi sentii ormai al sicuro.

Come istupidito da quella esperienza terrorizzante, non chiesi niente all’uomo che mi aveva salvato: come mai si trovava da quelle parti, notai soltanto che era un vecchio, ma molto vecchio. Nonostante la sua età, aveva un viso sorridente e pieno di energia, che ispirava fiducia. Restai non poco meravigliato che un vecchio potesse essere così attivo. Evidentemente aveva una salute di ferro.

In quel momento non ci feci caso, perché in sud America mi ero abituato a vedere gente anziana che lavorava. In Brasile la maggior parte dei vecchi sono costretti a lavorare fino a che ce la fanno, in quanto percepiscono pensioni da fame.

Quello che non sono mai riuscito a dimenticare era il suo viso rosso, volitivo. Aveva due baffi bianchi, enormi e corposi, che dal naso arrivavano fino sulle guance, anche da sotto il casco spuntavano capelli bianchi da tutte la parti. Evidentemente doveva portarli abbastanza lunghi.

Presi venti realis* e glieli diedi. Accennò a darmi il resto, ma gli feci capire che poteva tenerli. Senza dire parola, l’uomo andò via.

Questa è un’altra cosa strana di quell’incontro, su cui ho riflettuto solo in secondo tempo: nonostante fossimo stati insieme per quasi mezz’ora, egli non aveva mai parlato, né avevo mai sentito la sua voce.

Con le gambe ancora vacillanti per la paura varcai il cancello del condomino dove abitavo. Una sorda felicità si impadronì di me, solo mezz’ora prima pensavo che sarei morto, ora invece ero sano e salvo a casa e non mi avevano nemmeno preso i soldi.

Mia cugina e suo marito non erano in casa perché erano andati all’interno del Brasile dove possedevano una fazenda, così non c’era nessuno a cui narrare la mia disavventura.

Mi distesi sul letto per riprendere fiato e un alveare di domande incominciò a ronzarmi nella mente.

Ma come faceva quel taxi a trovarsi proprio là? Come aveva fatto ad arrivare con tempismo perfetto?

Solo allora mi ricordai della mia preghiera. Allora era stato un angelo?

Il giorno dopo chiesi notizie alla società di moto taxi a cui apparteneva l’uomo che mi aveva raccolto, quella con le casacche arancione per intendersi. Mi dissero che non avevano nessun motociclista molto vecchio, con grandi baffi bianchi. Non solo, ma si meravigliarono molto del mio racconto, perché nessuno di essi si avventurava mai di notte nella zona in cui ero rimasto a piedi.

Promisero di indagare, ma anche nei giorni successivi in cui tornai per chiedere notizie, mi confermarono che nessuna delle loro moto

taxi aveva preso un turista nella zona che avevo indicato, poco prima di mezza notte. Inoltre, tra loro non c’era nessun vecchio, con i capelli lunghi e grossi baffi bianchi che portava una moto taxi. Se qualcuno mi aveva dato un passaggio era di un’altra compagnia, non della loro.

Le loro parole mi lasciarono molto scettico. A parte il fatto che a Fortaleza non c’erano tante compagnie di moto taxi, al massimo erano 2 o 3, mi ricordo benissimo che il vecchio aveva una casacca arancione e quella era l’unica compagnia i cui addetti indossavano tale indumento.

Allora chi mi aveva salvato?

Non so, ma io preferisco continuare a pensare che sia stato un angelo.

Sì, si può pensare alla coincidenza, ma qui non siamo al cinema. I conducenti delle moto taxi non se ne vanno in giro la notte per le favelas brasiliane perché possono essere rapinati o uccisi. E poi non spuntano all’ultimo minuto, come nei film americani, quando stai per essere derubato da tre teppisti. Nella vita reale le coincidenze eccezionali, come quella che avevo vissuto, erano veramente rare.

La verità, anche se poteva sembrare irreale, era semplice: quell’angelo con la casacca arancione aveva deciso di salvarmi ed era accorso in soccorso alle mie preghiere.

  • Moneta brasiliana

GIOCARE CON GLI ANGELI

Mi chiamo Dorella Ettore e l’anno scorso, precisamente l’11 giugno, è nata mia figlia Sara. Una bambina stupenda, tanto buona e tranquilla. Per me e per mio marito è stata una gioia immensa.

Andò tutto bene, dopo pochi giorni lasciai l’ospedale portando mia figlia con me a casa. Ero veramente molto felice, ma una notte un incubo arrivò a turbare questa felicità. Sognai il demonio che portava via mia figlia.

Mi svegliai nel cuore della notte piangendo, presi la bimba che dormiva serenamente nella sua culla accanto al mio letto e la strinsi forte a me. Per molto tempo rimasi così a piangere. Avevo desiderato tanto quella bambina che il solo pensiero di perderla, mi faceva impazzire dalla paura.

Mio marito mi sedette accanto e accarezzandomi dolcemente cerco di calmarmi, dicendomi che era stato solo un brutto sogno e che non c’era alcun pericolo reale per la nostra bambina. Ad ogni modo, mi promise che avremmo battezzata Sara, questo era il suo nome, al più presto.

Purtroppo non facemmo in tempo, perché sabato 28 giugno, la bambina che aveva solo 17 giorni, mi svenne tra le braccia e non si svegliò più.Disperati la portammo di corsa all’ospedale di Martina Franca. Lì trovammo un dottore giovanissimo, ma bravissimo che capì la gravità della situazione e ci fece accompagnare con un’ambulanza al centro di patologia intensiva neonatale di Taranto.

Durante il tragitto non sapevo cosa pensare, avevo tra le mie braccia la piccola con una febbre altissima, ansimante. Avevo tanta paura di perderla.

Arrivati a destinazione mi tolsero letteralmente la bambina dalle braccia e la portarono nel reparto di terapia intensiva.

La misero in una incubatrice con una flebo in testa e molte macchine attaccate. La vedevo solo di sera. Vederla incosciente, con tutti quei tubicini e solo per pochi attimi, era uno strazio, una sensazione di disperazione indescrivibile.

Ci dissero, a me e a mio marito, che aveva una brutta infezione, ma che solo l’indomani avrebbero avuto i risultati dell’esame del sangue e che quindi avremmo saputo qualcosa di più sull’agente patogeno che l’aveva infettata.

Fu la notte peggiore della mia vita. Per la prima volta dopo 10 mesi, contando anche la gravidanza, ero lontana da mia figlia. Ero terrorizzata, cosa sarebbe successo? Mi avrebbero ridato di nuovo la mia bambina?

L’indomani uscirono i risultati delle analisi, erano meglio di quanto si temeva. Per fortuna non si trattava di un meningococco, ma di uno streptococco, però la situazione era lo stesso grave. Il pericolo maggiore era che, se questo battere fosse riuscito ad arrivare al cervello, il che non era molto difficile, per la nostra bimba non ci sarebbe stata più speranza.

Un dottore arrivò persino a dirci “O muore di antibiotico o di infezione, perché è troppo piccola e non ha le difese immunitarie ancora formate”.

Immaginatevi la mia disperazione, stavo per perdere la mia unica figlia, la persona che più amavo nella vita.

Tornando a casa, ricordo che era una domenica sera e pioveva tanto, io e mio marito per la strada non facevamo che piangere. La bimba che avevamo tanto desiderata stava andando via e per di più non potevamo starle nemmeno accanto, perché si trovava in terapia intensiva!

Fu allora che decidemmo che Sara doveva essere battezzata. Se non poteva vivere, che almeno andasse in cielo da buona cristiana.

Invece di tornare a casa, andammo in quella piccola chiesa di campagna, consacrata a San Michele Arcangelo, a parlare col prete che ci aveva sposati. Nonostante l’ora ci fece entrare, e ci disse delle parole di conforto; poi ci promise che il giorno dopo sarebbe venuto con noi in ospedale a battezzare la piccola Sara.

E così fu. Il giorno dopo ci recammo in ospedale. Don Romano portava con sé una piccola ampolla di vetro piena di acqua santa. L’aveva raccolta direttamente dal fiume Giordano in un suo recente viaggio in Terrasanta.

Spiegammo tutto al primario del reparto. Non potevamo far morire la nostra bimba senza il conforto della fede. Egli capì e in via eccezionale ci lasciò entrare, facendoci coprire la testa con un cappellino chirurgico e la bocca con una mascherina. Fu così che avvenne quel rito: due genitori, un prete e le due infermiere come madrine, accanto a una incubatrice, in cui c’era una bambina incosciente attaccata a tanti tubicini.

Don Romano celebrò il battesimo, infilò la mano nell’incubatrice e lasciò cadere poche gocce di acqua santa sulla testa di Sara, pronunciando le parole di rito: “Io ti battezzo con l’acqua del Giordano … “.

Riuscii a uscire dalla stanza prima di scoppiare di nuovo in lacrime. Ci avevano raccomandato tanto di non farlo per non contaminare l’ambiente.

Ricominciò la lunga attesa nel corridoio, sempre col timore pazzo che da un momento all’altro fosse uscita un’infermiera a darmi la bruttissima notizia che Sara non ce l’aveva fatta. Ma in cuore mio speravo e pregavo il Signore di salvarla.

La notizia giunse un paio di ore più tardi, ma non era cattiva come avevamo temuto, era una bella notizia. Sara si era svegliata. Mi lasciarono entrare e riuscii perfino a darle il latte che non prendeva da tre giorni. Ero fuori di me dalla gioia, non solo stavo di nuovo accanto a mia figlia, ma si era ripresa e le sue condizioni di salute lasciavano ben sperare.

Andò avanti così per una ventina di giorni, la bambina non stava proprio bene, ma non aveva più la febbre forte, mangiava ecc. insomma sembrava il normale decorso di una convalescenza. Noi col cuore in gola aspettavamo sempre che guarisse definitivamente. Eravamo,

però, sempre in ospedale.

Una sera, purtroppo, la bambina si aggravò di nuovo. La febbre salì di colpo. I dottori non sapevano spiegarselo.

Sembrava impossibile, fino a poco fa sembrava sulla via della guarigione, ora stavamo di nuovo cadendo nel buio baratro.

La disperazione si impadronì di me, non so perché, ma a un certo punto mi convinsi che non ce l’avrebbe fatta, che avrei perduto mia figlia. Ebbi un mancamento, la pressione crollò, dovettero ricoverare anche me in ospedale. Io stavo al piano di sotto e la bambina di sopra.

Mio marito non sapeva più che fare. Quella notte tornò a casa disperato, si buttò sul letto senza nemmeno mangiare. Doveva dormire almeno un po’ se voleva riprendere le forze e affrontare la giornata successiva, che si preannunciava molto pesante.

Fu quella notte che sognò un bellissimo angelo. Quello che mi ha fatto rabbia in questa storia è che l’angelo è andato a trovare lui: mio marito che non è stato mai molto credente e raramente si recava in chiesa. Mentre io che ho sempre avuto molta fede, non ho potuto mai incontrare una di queste creature celesti.

Mio marito restò entusiasta da quella visione, ma il giorno dopo, in ospedale, non seppe riferirmi bene ciò che cosa aveva visto o udito. Si ricordava chiaramente soltanto di alcune parole: “Il dottore della bambina non è a Taranto”.

Io fui presa subito dall’ansia. Quell’essere celeste voleva comunicarci qualcosa. Mi sono alzata, mi sono vestita e mi sono dimessa dall’ospedale, asserendo di stare bene. Avevo altre cose da fare che pensare alla mia salute. Dovevamo assolutamente portare la bambina al Santobono di Napoli.

Chi mi aveva suggerito il nome di quell’ospedale?

La mattina era venuto a trovarmi il primario del reparto dove era ricoverata mia figlia, che mi aveva parlato di questo ospedale. Collegai le due cose e decisi che la cosa migliore era portarla là. Mi convinsi che questo era il messaggio che aveva cercato di comunicarci quell’angelo.

Il problema era che dovevamo prima trovare una macchina grande con l’aria condizionata che ci accompagnasse, in quanto noi possedevano solo una piccola utilitaria non adatta al trasporto. Non solo, ma se si rompeva per la strada non ci sarebbe più stata speranza per Sara. In quel periodo tutta l’Italia era sotto una cappa di caldo e di afa e un salto di temperatura poteva essere fatale alla mia bambina.

Provammo a telefonare a tutte le persone che conoscevamo, ma non riuscimmo a trovare nessuno. O avevano degli impegni improrogabili o non avevano la macchina adatta per accompagnarci.

Eravamo disperati. A un certo punto ci venne in mente il nome di una persona che conoscevamo appena. Ci aspettavamo un rifiuto, ma quando telefonammo, quest’uomo, che per caso si chiamava Angelo, accettò di accompagnarci volentieri a Napoli in ospedale. Lo ringraziammo tantissime volte, eravamo felici perché potevamo dare così una possibilità alla nostra bambina.

Dato che avevano telefonato dall’ospedale di Taranto, a Napoli c’era ad attenderci un medico che per noi fu veramente più di un amico, un fratello.

Dopo aver ascoltato la nostra storia, visitò accuratamente la bambina e si prese cura di lei. La ricoverò, le cambiò la cura. Invece dei tanti antibiotici gliene diede uno solo, ma era quello giusto. La bambina, infatti, in breve tempo si riprese e guarì perfettamente. Ce ne accorgemmo subito, in quanto dopo alcuni giorni riprese a giocare.

Non potete immaginare la mia felicità nel vederla come prima, quando fino a qualche giorno prima la ritenevo ormai perduta.

Se fossimo rimasti nell’ospedale di Taranto sarebbe morta, in quanto non le stavano facendo la cura giusta. Se quell’angelo non ci avesse avvisato, non l’avremmo portata mai a Napoli e per Sara, sicuramente non ci sarebbero state speranze.

Non si può parlare di coincidenza, perché l’angelo in sonno era stato molto preciso: “Il dottore della bambina non è a Taranto”.

Col passare dei giorni notai dei comportamenti strani di Sara, a volte sorrideva senza che nessuno fosse presente, altre volte muoveva il pancino come se qualcuno le stesse facendole il solletico, ma quello che mi sembrò più strano era che, ogni tanto, fissava un punto lontano e sorrideva come per ricambiare il sorriso di qualcuno.

Anche le infermiere dell’ospedale notarono gli stessi comportamenti e me lo riferirono. Si meravigliavano molto, perché era così piccola e i bambini della sua età di solito, non sorridono ancora o fanno certe cose. Nessuno seppe darci qualche spiegazione plausibile.

Un giorno mi telefonò per chiedere notizie della bambina una mia amica, la stessa che mi prestò il suo libro sugli angeli. Io le riferii degli strani comportamenti di Sara ed ella mi spiegò il significato di quel dilemma. Mi disse che faceva così perché giocava con i suoi angeli.

Rimasi estasiata da quella spiegazione.

Dopo cinque giorni facemmo l’analisi, l’infezione era finita. La bambina era guarita completamente. Lasciammo l’ospedale perché ormai stava benissimo.

Da allora, non ha avuto più febbre, non è stata più male, ma noi ogni tanto continuiamo a notare che lei gioca e ride con i suoi angeli, quando è da sola nella sua culla. Spesso la spiamo per goderci questa bellissima scena.

Per Natale ho trovato in un negozio due angeli. Sono bellissimi: uno è biondo, è Gabriel, e l’altro è bruno, Rafael. Li ho messi nel nostro salone ad accogliere tutti quelli che vengono a trovarci.

Le assicuro che si tratta di una storia vera, per me è bellissimo e rassicurante sapere che esistono gli angeli, che proteggeranno per sempre mia figlia. Una vita intera non basterà per ringraziarli.

L’ANGELO DEL TRENO

Mi chiamo Francesca, ho 67 anni e sono di Siracusa. Alcuni anni fa sono stata protagonista di un fatto straordinario che desidero raccontare affinché altre persone possano sapere e credere.

Ero stata a Civitavecchia a trovare mia figlia che vive da molti anni in quella città. Mi accompagnava l’altra mia figlia, quella più piccola, che chiamavo così anche se allora aveva già 36 anni.

Eravamo ferme nella stazione di Civitavecchia, io e lei. Stavamo aspettando il treno per Roma. Alla stazione di Roma Termini, avremmo poi dovuto cambiato e prendere un altro treno per Catania. Qui dovevamo cambiare di nuovo per proseguire per Siracusa. Un viaggio lungo e faticoso, soprattutto con i treni italiani lenti e spesso in ritardo.

La stazione era quasi deserta per l’ora, erano infatti quasi le 11,00 di sera. Per fortuna non dovemmo attendere molto perché dopo circa 15 minuti arrivò il treno. Era quasi vuoto o almeno così sembrava dall’esterno. Scese pochissima gente.

Mia figlia salì per prima per prendere il posto. Data l’ora, sicura

mente molta gente si era sdraiata su sediolini e non sarebbe stato facile trovare un posto libero.

La seguii con lo sguardo dall’esterno mentre procedeva nel corridoio, poi andò avanti e la persi di vista. Sapevo che amava i posti vicino al finestrino, scompartimenti per non fumatori, perciò mi aspettavo che ci avrebbero messo un po’ di tempo.

Passarono quasi 5 minuti e lei non si affacciava ancora, per chiamarmi. Entrai in ansia, perché se non faceva presto, c’era il pericolo che restassimo a terra. Perdere quel treno significava rimanere lì a Civitavecchia forse tutta la notte.

Sbirciai dai finestrini cercando di scorgerla, ma di lei non c’era traccia. Ad un certo punto, sentii lontano il fischio del capotreno.

Mi dissi che dovevo sbrigarmi a salire, altrimenti sarei rimasta a terra. Mi diressi verso la porta più vicina, la raggiunsi e afferrai il corrimano cercando di salire. Sono leggermente obesa e un po’ lenta per l’età, perciò ci misi un po’ di tempo. Accadde, infatti, che mentre mi arrampicavo per montare su quello scalino troppo alto per me (allora non c’erano ancora queste porte moderne basse, adatte alle persone disabili), la porta automatica si chiuse improvvisamente. Non solo non riuscii ad entrare, ma una gamba mi restò incastrata tra i due battenti chiusi.

All’inizio sottovalutai il pericolo e cercai di tirarla indietro, ma le due ante la tenevano stretta come in una morsa e non riuscii nel mio intento. Ci provai di nuovo con tutte le mie forze, ma senza risultato.

Fu allora che mi resi conto del pericolo: se si fosse avviato il treno, sarei andata a finire sotto le rotaie.

Il terrore si impadronì di me. Cercai di gridare, forse aprii anche la bocca, ma non uscì alcun suono dalla mia gola secca.

Il treno si mosse un po’, ciò significava che il macchinista aveva mollato i freni. Mi vidi perduta, sarei stata trascinata via dal treno e

sbattuta contro un ostacolo o sarei andata a finire sotto le ruote. Cercai di nuovo di gridare, ma un folle terrore mi paralizzava. Nella mia mente pregai il mio angelo custode, che non dimenticavo mai di ringraziare nelle preghiere serali, di aiutarmi.

Quando già mi stavo rassegnando a morire in quel modo orribile, infatti il treno incominciava lentamente a muoversi , all’improvviso, vidi dall’interno del vagone sopraggiungere un giovane molto alto, biondo e bello. Con una prontezza di spirito eccezionale, diede un violento colpo con un braccio alla porta, che si aprì.

Appena le due ante mi lasciarono libera, con la sveltezza di un gatto, mi afferrò al volo e mi tirò dentro. Poi senza dire niente, se ne andò via, lasciandomi barcollante per la paura vicino alla porta del bagno.

…CONTINUA NEI PROSSIMI ARTICOLI…

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ARTISTA VINCENZO BENINCASA VB...

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