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GARGIONE

GLI ANGELI, LASSU’, QUALCUNO MI AMA, PARTE SECONDA

…continua…

Mi sedetti su uno strapuntino nel corridoio per riprendere fiato. Ero a dir poco traumatizzata. Nonostante ciò, feci un rapido controllo, non avevo niente di rotto, me l’ero cavata solo con un grande spavento. Se non ci fosse stato quel giovane, pensai, avrei fatto una fine orribile.

  • Ma dove era mia figlia, perché non tornava?

Mi girai intorno e fu allora che la vidi sopraggiungere.

Lei senza darmi il tempo di parlare, temendo di essere rimproverata, mi disse che appena si era accorta che il treno stava partendo era tornata subito indietro.

Vedendomi stravolta, mi chiese che cosa mi fosse successo. Cercai di spiegarle l’accaduto, ma non ci riuscii. Dalla bocca mi uscirono solo parole incomprensibili e sconclusionate. Lei mi feci segno di calmarmi, che c’era tempo per raccontarle tutto.

Ripresi le mie piene facoltà solo un quarto d’ora dopo. Poco alla volta le raccontai tutto.

Si spaventò, mi disse che avevo rischiato veramente di finire sotto il treno. Poi mi chiese dove era andato quel ragazzo, perché lo voleva ringraziare di persona. Le risposi che si era diretto verso la testa del treno. Replicò che non era possibile perché veniva proprio di là e non aveva incontrato nessuno.

Allora deve essere entrato in uno di questi ultimi scompartimenti _ conclusi.

Ci siamo alzate e l’abbiamo cercato insieme. Abbiamo passato con calma a uno a uno quegli scompartimenti, ma non c’era nessuno che potesse rassomigliargli sia pure vagamente.

Ho proposto a mia figlia di estendere la nostra ricerca alla carrozza successiva, ma mi ha risposto che era impossibile che fosse andato là, perché lei veniva da quella parte ed era sicura di non avere incontrato nessuno.

Mi chiese se, invece, il giovane si fosse diretto verso la coda del treno. Questa volta fui io a negare.

  • L’ho visto benissimo andare avanti, non mi sbaglio.

Dopo avere rifatto di nuovo tutti gli scompartimenti della nostra carrozza, per essere più sicure, abbiamo cercato anche negli altri vagoni, ma di un giovane alto, biondo e di bell’aspetto, nessuna traccia.

Abbiamo cercato il controllore e gli abbiamo raccontato l’accaduto. Ci ha risposto che quella sera non aveva visto nessun giovane alto e biondo.

Ma allora dove era andato?

Nessuno l’aveva visto, sembrava svanito nel nulla. Alla fine ci siamo arrese e abbiamo smesso di cercarlo.

Più tardi, seduta comodamente in uno scompartimento, ho ripensato all’accaduto. Solo allora, mi sono ricordata della mia preghiera e finalmente ho capito che un angelo mi era venuto in aiuto.

Vorrei dire a tutti quelli che leggeranno questa testimonianza di pregare sempre e non disperare mai, perché anche quando sembra che stiamo per toccare il fondo, una mano misteriosa ci solleva.

Ringrazio anche lei, se pubblicherà questa mia testimonianza.

Francesca T. – Siracusa

UNA COPPIA MOLTO FELICE

Mi chiamo Luisa e sono un’insegnante di Scuole Medie di Messina. Ho letto il suo libro sugli angeli, che ho trovato molto gradevole e ho sentito inarrestabile il bisogno di raccontarle la mia storia.

Questo episodio è avvenuto circa 35 anni fa. Avevo diciott’anni e amavo trascorrere l’estate con una mia zia, la sorella di mia madre e suo marito, una coppia senza figli, a cui ero molto legata. Vivevano in campagna ed io amavo trascorrere il mio tempo libero a contatto con la natura.

L’aria era pulita, non c’erano rumori molesti, potevo giocare tutto il giorno in giardino e sentire il cinguettio degli uccelli, dove lo trovavo un posto più bello?.

Lo zio aveva circa sessant’anni e aveva preso da poco la patente, perciò era ancora inesperto. Appena superato l’esame si comprò una macchina nuova, che ritirò dal concessionario qualche mese dopo.

Mio zio era molto orgoglioso di quella macchina e di essere riuscito a prendere la patente nonostante l’età. Non considerava minimamente che non era ancora molto bravo alla guida e che aveva bisogno di fare molta pratica. Per lui bastava aver preso la patente e possedere una macchina per essere un bravo autista, anzi era orgoglioso di aver superato l’esame senza eccessiva difficoltà.

Una sera, dopo cena, lo zio per farmi cosa gradita, si offrì di accompagnarmi a fare visita ai miei genitori che, con mia sorella e un’altra zia, si trovavano in un paese di collina, non molto lontano, in un’antica casa di possesso della famiglia.

A quella proposta io e mia zia ci guardammo negli occhi con la stessa espressione di paura. La strada era pessima, poco o per nulla illuminata, con curve a gomito e salite molto ripide.

Cercammo di dissuaderlo accampando mille scuse, ma lui si ostinò quasi offeso. Incominciò a dire che non avevamo fiducia in lui, che mettevamo in dubbio le sue capacità di autista. Con noi c’era anche Francesca, una donna di servizio che ormai viveva da anni con i miei zii ed era perciò trattata come un membro della famiglia.

Tutti e tre cercammo di fargli cambiare idea, ma più parlavamo, più si intestardiva nel suo proposito. Si sentiva offeso perché avevamo paura di andare in auto con lui.

Alla fine fummo costrette a cedere, così più tardi eravamo in macchina, i miei zii davanti e io e Francesca, sedute dietro.

Erano passate da poco le 21, la strada era completamente deserta. Lo zio per fortuna guidava piano. Questo fatto un po’ ci rassicurò, ma eravamo comunque tese. Una certa ansia pervadeva noi tre donne.

Per un po’ il viaggio procedette senza problemi, ma in una curva più stretta delle altre, avvenne ciò che avevamo sempre temuto. Lo zio, per schivare una buca più profonda delle altre, sterzò violentemente e perse il controllo della vettura che sbandò.

La fortuna ci fu amica e la macchina si arrestò proprio sul ciglio della strada, in bilico su un burrone, di cui non si scorgeva il fondo per l’oscurità.

Potete immaginare il nostro spavento.

Per fortuna lo zio non perse la calma e ci rassicurò. L’unica cosa da fare era scendere lentamente dalla vettura poiché qualsiasi movimento brusco poteva farci cadere giù nel dirupo. Lo zio tirò prima il freno a mano, poi ci disse di aprire lentamente lo sportello posteriore, dal lato della strada e di uscire fuori una alla volta. Così facemmo, prima Francesca, poi io.

Mentre noi tenevamo in qualche modo ferma la macchina per controbilanciare il suo peso, scese anche lui e poi finalmente anche la zia, che era dall’altra parte.

Tirammo un sospiro di sollievo. C’era andata bene, eravamo tutti sani e salvi, ma l’avevano scampata bella. Dovevamo ringraziare chissà quale santo per non essere precipitati nel burrone, dove ci avrebbero ritrovati solo il giorno dopo, dato che di là non passava mai nessuno.

Prendemmo fiato e in cuor nostro ognuno di noi recitò una breve preghiera.

Per un po’ ci congratulammo per lo scampato pericolo, poi si pose il problema di tornare a casa. C’eravamo salvati, ma la nostra situazione non era delle migliori. Eravamo in aperta campagna, di sera e in una strada in cui non passava mai nessuno.

Cosa avremmo fatto di notte in quella strada deserta? D’accordo, non faceva molto freddo, ma passare una notte all’addiaccio non era una prospettiva gradevole.

Lo zio ispezionò la macchina, era assolutamente impossibile rimetterla in carreggiata, anche perché se provava a muoverla c’era pericolo di farla precipitare giù.

E se anche fosse riuscita a riportarla sulla strada, non era facile farla ripartire dato che si trattava di una salita ripidissima. Se, invece, si sceglieva di tornare indietro, si doveva affrontare una discesa notevole a marcia indietro, cosa di cui mio zio non era assolutamente capace.

Io e Francesca ci offrimmo di andare a cercare aiuto ad alcune case vicine che avevamo da poco superate. Era buio e la tenue luce della luna, quella sera una sottile falce nel cielo, era appena sufficiente per farci vedere dove mettevamo in piedi e per non farci finire in un fosso.

Procedemmo per qualche centinaio di metri, poi trovammo finalmente delle case. Erano, però, tutte chiuse e dall’aspetto sembravano disabitate. Provammo a bussare e a chiamare, ma nessuno rispose. Dopo quasi mezz’ora di girovagare non avevamo trovato nessuno. Si trattava di una paesino deserto, abitato forse solo d’estate.

Fui presa dallo sconforto, fui allora che mi rivolsi al cielo:

  • Angeli del cielo, aiutateci, che vi ricorderò sempre nelle mie preghiere!

Poi camminando per un altro centinaio di metri, trovammo una traversa che, non so perché, ma ci piacque subito. Senza aver nemmeno bisogno di consultarci, la imboccammo attirati da qualcosa di misterioso. Entrambe eravamo sicure che portava a una casa.

Procedemmo forse per altri duecento metri, poi, dopo una leggera curva, scorgemmo una luce.

Ci rallegrammo per avere trovato finalmente qualcuno. Se avevano il telefono potevamo chiamare un familiare o un amico e farci venire a prendere. Il giorno dopo avremmo recuperato l’auto.

Felici e sollevate da quella vista ci dirigemmo verso la casa. La luce proveniva da un garage aperto, al cui interno si intravedevano numerose scatole di cartone accatastate, in modo disordinato, le une sulle altre. Su una di queste c’era un televisore acceso e dinanzi, su un’altra, stava seduta una ragazza molto carina. Dietro di lei, in piedi, c’era un ragazzo appoggiato ad altri scatoloni.

Li chiamammo, facendoci notare. Ci accolsero molto gentilmente. Rapidamente spiegammo il nostro problema e l’uomo si offrì subito di aiutarci. Gli chiedemmo se era il caso di portare con noi una corda o dell’attrezzatura, perché la macchina era in bilico. Ma l’uomo rispose che non era necessario.

  • Forse è meglio chiamare qualcuno con un carro attrezzi o un camion per tirare la macchina dal bordo del burrone? _ Osò suggerire Francesca.

Non è necessario – replicò l’uomo – e poi qui non abbiamo il telefono.

Senza aggiungere altro, si avviò avanti, verso il punto che gli avevamo indicato.

Io, Francesca e sua moglie lo seguivamo dietro, a distanza.

La donna ci disse che eravamo stati fortunati, perché in quel paesino non c’era nessuno che sapesse guidare e che ci potesse soccorrere. Ci raccontò che erano appena tornati dal viaggio di nozze, ecco il perché degli scatoloni, che erano i loro regali ricevuti il giorno del matrimonio.

Aggiunse poi, che i mobili, con cui dovevano arredare la casa, non erano ancora arrivati perciò quella sera dovevano arrangiarsi.

Nonostante queste difficoltà, dalla sua voce capimmo che era molto felice.

Una volta sul posto, lo zio illustrò al giovane la situazione, ma quest’ultimo non sembrò curarsi molto delle sue parole. Con una facilità enorme, che ci sorprese, e senza alcun timore di far finire l’auto nel burrone, si mise al volante della macchina, innescò la marcia indietro e la riportò sulla strada.

Ci stupì per la perizia con cui fece quella manovra eppure non era semplice. Due ruote non facevano più presa completamente sul terreno e bastava uno sbilanciamento del peso, per fare precipitare l’auto giù.

In quel momento, non abbiamo dato molta importanza alla cosa. Abbiamo pensato che forse era esperto di queste manovre, ma ciò, in seguito, ci ha fatto riflettere. Solo un essere extraterreno poteva rimettere sulla strada un’auto in bilico così facilmente e per giunta senza mostrare alcuna paura.

Lo zio lo ringraziò ripetutamente e tutti noi lo imitammo. Il giovane si offrì di portare l’auto fino alla fine della salita. Una partenza con una pendenza così accentuata non era certo facile per mio zio. Per lui, invece, fu uno gioco da ragazzi.

Arrivato alla fine della salita, superò anche la successiva curva che era molto pericolosa e poi fermò la vettura.

Lo raggiungemmo alcuni minuti dopo, a piedi. Ci fermammo per un po’ vicino all’auto a chiacchierare. Il giovane rimase ancora qualche minuto con noi per dare a mio zio tutti i consigli per procedere. Ci diede anche delle indicazioni sulla strada da seguire e sulle condizioni del manto stradale, spesso sconnesso.

Alla fine, ci salutammo tutti affettuosamente. Eravamo proprio felici di aver incontrato quei due giovani sposi che ci avevano aiutato. Baciammo la donna sulle guance e poi risalimmo, uno alla volta, in macchina. Lo zio si mise al volante e accese il motore.

Altri saluti affettuosi, poi ripartimmo. Mi ricordo che andando via, mi girai indietro ad osservarli finché non scomparvero alla vista. Rimasero fino ad allora fermi sul bordo della strada a salutarci agitando una mano, stretti l’uno all’altro. Si vedeva proprio che erano molto felici.

Per strada si scatenò un breve temporale estivo, ma senza conseguenze. Mezz’ora dopo eravamo arrivati finalmente a casa dei miei genitori. Tutti eccitati, raccontammo loro la nostra breve disavventura e di quella coppia felice che ci aveva aiutato in un momento così critico.

I miei genitori, visti i problemi che avevamo avuto con la macchina, insistettero affinché passassimo la notte lì. Non abbiamo potuto dire di no e così ci fermammo a dormire a casa dei miei.

L’indomani mattina alle otto, dato che lo zio aveva delle faccende da sbrigare, ci mettemmo in macchina per tornare a casa. Era una splendida giornata di sole.

Per strada quando fummo nei pressi del luogo dove avevamo avuto l’incidente la sera precedente, chiesi allo zio:

  • Perché non ci fermiamo a salutare quella coppia così felice?

Sì – aggiunse la zia – Quando saremo in città dobbiamo comprare loro un regalo per esprimerle la nostra gratitudine.

Lo zio fu subito entusiasta dell’idea, era rimasto anche lui colpito dalla felicità che emanava quella coppia.

Mi disse ridendo: “Se tutti gli sposi fossero felici come quelli, non ci sarebbero più tante zitelle in giro.”

Pochi minuti dopo eravamo sul posto dove era avvenuto l’incidente. Ci fermammo un istante per osservare i segni delle ruote a terra e poi proseguimmo. Più avanti sulla destra, ritrovammo la stradina laterale che avevamo percosso per andare a cercare aiuto in quella casa.

Arrivati lì vicino, fermammo l’auto e scendemmo, io e Francesca. La casa era chiusa, anzi aveva l’aspetto di un’abitazione ormai abbandonata da anni. Ma noi, convinti che ci dovevano essere quei due sposini, non ci scoraggiammo e bussammo più volte.

Purtroppo, non rispose nessuno e non c’era alcun segno di vita.

Insistemmo a lungo, provammo persino ad entrare nel cortile e a battere i pugni contro la saracinesca del garage ripetutamente, ma invano.

Tutto quel baccano, però, ebbe l’effetto di far affacciare una signora anziana che abitava nella casa di fronte.

Ci chiese chi cercavamo. Spiegammo la situazione e la signora rimase molto sorpresa. Quella casa era disabitata da anni.

Io insistetti, dicendo che la sera prima c’era una coppia che era appena tornata dal viaggio di nozze e che il marito ci aveva aiutato a spostare la macchina, che era finita sul ciglio del burrone.

  • Impossibile _ replicò la donna – qui siamo tutti vecchi e nessuno sa guidare, quella casa è chiusa da molti anni.
  • In effetti _ aggiunse poi, come ricordandosi – ci doveva venire ad abitare una giovane coppia di sposi, ma ebbero un incidente stradale durante il viaggio di nozze e morirono.

Io e Francesca ci guardammo in faccia l’un l’altra, sbalordite. Senza aggiungere altro la salutammo, scusandoci di averla importunata.

Arrivati vicino alla macchina, lontana solo pochi metri, raccontammo tutto agli zii. Anch’essi rimasero sconvolti.

Rimanemmo pensierosi per alcuni minuti, poi decidemmo che non ce ne potevamo andare così senza saperne di più. Ormai la nostra curiosità e il nostro stupore era arrivati i livelli insopportabili. Così riprendemmo coraggio e tornammo tutti insieme indietro alla casa.

Bussammo direttamente al portone della donna che ci aveva detto che la casa era disabitata, decisi a saperne di più. Quando la donna ci aprì le chiedemmo di descriverci brevemente la coppia che era morta durante il viaggio di nozze.

Con nostra grande stupore scoprimmo che la descrizione corrispondeva perfettamente alle due persone che ci avevano soccorso la sera precedente.

A questo punto le raccontammo tutto, la donna rimase molto sorpresa. Evidentemente qualcuno dal cielo ci aveva aiutato quella notte.

Nessuno in questo paese sa guidare un auto _ ci disse la donna _ ed è anche vero che nessuno di noi ha un telefono in casa perché abitiamo qui solo d’estate.

Pensierosi tornammo alla macchina, perché si stava facendo tardi. Ci rimettemmo in viaggio procedendo lentamente. Nessuno di noi parlò, ma dentro di sé, ognuno si faceva la stessa domanda:

Allora chi ci aveva soccorso la sera prima?

Non l’abbiamo mai saputo. Ulteriori indagini fatte chiedendo ad altre persone di quel piccolo gruppo di case, dove siamo tornati più volte, non hanno approdato a niente. Quella notte in quel piccolo paese, non c’era nessuna giovane coppia che avrebbe potuto aiutarci.

L’unica spiegazione possibile era che quella coppia così felice erano in realtà due angeli, scesi già da cielo ad aiutarci.

UN CANE ASSASSINO

Mi chiamo Rocco Spagnolo e sono di Catania, durante la seconda guerra mondiale, ero dislocato con la mia compagnia insieme a una compagnia di tedeschi in Tessaglia, nel nord della Grecia. Sorvegliavamo la ferrovia che congiungeva Karditsa con Larissa.

Il giorno 14 settembre 1942 ho chiesto al mio comandante il permesso di allontanarmi per recarmi a lavare i miei indumenti intimi in un ruscello, poco lontano dal campo.

Al ritorno, mentre camminavo speditamente per raggiungere la mia compagnia, mi sono accorto che a circa 300 metri più avanti c’era un pagliaio. Non ho fatto neanche 50 metri che un uomo è uscito da dietro questo pagliaio, osservandomi a lungo.

Poi ha fatto un fischio, richiamando un feroce cane. La popolazione in quel luogo ci era ostile, quindi non mi sono meravigliato quando ha aizzato il cane contro di me, ordinandogli con un segno della mano di uccidermi. Al gesto del padrone, infatti, il cane ha puntato direttamente su di me con la chiara intenzione di sbranarmi. Si trattava sicuramente di un cane addestrato e chissà quante persone aveva già ucciso in quel modo.

Mi sono fermato a osservare attentamente il cane. Avevo la biancheria bagnata sul braccio sinistro, ma portavo il fucile con la pallottola in canna sulla spalla destra.

Il primo pensiero è stato quello di prendere il fucile e sparare al cane. Ma per prima cosa non c’era il tempo per farlo, considerato anche che bisognava togliere la sicura al fucile. Per secondo, il cane correva veloce e non era facile colpire al volo una bestia simile. Per terzo, il fatto era avvenuto così improvvisamente che ero rimasto come paralizzato dal terrore.

Mi ricordai in quel momento degli insegnamenti di mio padre che mi diceva sempre di restare fermo, se non volevo essere assalito da un cane. Perciò mi fermai fronteggiando la bestia con lo sguardo. Ciò ebbe l’effetto di farlo rallentare.

Il cane a pochi metri da me, si fermò e mi fissò come un uomo. Io ero come impietrito. Ad un certo punto, emise un verso come un urlo sordo e volò in aria per addentarmi. Ho chiuso gli occhi sicuro di dover morire. Ho avuto soltanto il tempo di gridare: “Dio, aiutami!”

In quell’istante, mentre aspettavo la mia fine, mi sono sentito nella mano destra il fucile che portavo in spalla. Ho fatto scattare d’istinto la sicura col dito pollice e ho premuto il grilletto.

Un colpo solo, sparato senza prendere la mira, anzi senza nemmeno vedere il cane. Ero sicuro d’averlo mancato.

Pensai, sono morto, adesso il cane mi viene addosso e mi azzanna alla gola.

Col cuore in gola e gli occhi chiusi, aspettavo la morte, ma ho sentito solo un tonfo, come di un sacco di cemento caduto davanti a me. Quando ho riaperto gli occhi, ho visto il cane di nuovo di fronte a me, in piedi. Era ancora vivo e il pericolo non era cessato.

Girava intorno a sé stesso sul lato destro e mentre girava, con la bocca aperta cercava di addentarmi. Mi sono accorto che aveva un buco al centro del petto da cui usciva sangue e acqua. Dunque, senza accorgermene l’avevo colpito.

Ma perché non moriva?

Ho fatto un passo indietro, ho caricato di nuovo il fucile per finirlo o forse per impedire che mi aggredisse di nuovo, ma ad un tratto il cane è crollato a terra, morto stecchito.

Ero salvo! Dio aveva sentito la mia richiesta di aiuto. Qualcuno mi aveva messo nelle mani il fucile che avevo sulla spalla, perché mi ricordo bene di non averlo fatto da solo. Avevo vinto, sembrava incredibile, ma ce l’avevo fatta!

Passato lo spavento, la mia ira si è rivolta verso l’uomo che mi aveva aizzato contro il cane. Dato che voleva uccidermi per prendersi il fucile, non meritava di vivere.

Lo intravedo fuggire verso la campagna. Appena si era accorto, infatti, che il cane era morto, se l’era data a gambe.

Tu volevi farmi uccidere _ pensai – adesso io uccido te.

Presi la mira e stavo per premere il grilletto. Ero sicuro di colpirlo perché ero un buon tiratore, ma in quell’istante ho sentito una voce che mi diceva:

  • No, non deve morire, perché i suoi figli piangeranno. Lui non sapeva quello che stava facendo.

Allora abbassai il fucile, dentro di me ho pensato: “Sì, non l’uccido, tanto ho vinto io. Si ricorderà per tutta la vita del male che mi stava facendo.”

Mi sono incamminato di nuovo sul sentiero, avevo premura di raggiungere rapidamente i miei compagni.

Quando sono giunto al campo, ho raccontato loro tutto. Mi hanno detto che avevo fatto male a non sparare al padrone del cane, perché voleva farmi fare una terribile fine senza che gli avessi fatto niente. Era una carogna che non meritava di vivere, ma io ero contento di aver ascoltato la voce del signore.

Ho fatto, poi, rapporto al comandante. Anche lui ha riconosciuto che, da come si erano svolti i fatti, era un miracolo se mi ero salvato. Anche se avessi avuto il tempo di prendere il fucile, difficilmente l’avrei colpito perché è difficile colpire un cane a volo, quando ormai si è lanciato per addentare una persona alla gola.

Ancora oggi sono convinto che solo una creatura celeste abbia potuto salvarmi facendomi trovare quel fucile tra le mani e guidando la mia mira, perché mai avrei potuto colpirlo, sparando alla cieca.

Da allora non dimentico mai di ricordarlo nelle preghiere.

UN ANGELO IN TRINCEA

Mi chiamo Antonietta e sono di Latina, vorrei dare testimonianza di un fatto straordinario accaduto al mio papà, della cui autenticità sono certa perché mio padre era una persona molto seria e non raccontava mai bugie.

Egli era rimasto così colpito da questo evento, che ne parlava sempre, perciò non può essere che se lo sia inventato.

Voglio raccontarlo agli altri per ringraziare l’angelo che l’aveva salvato e per rendere onore alla memoria di mio padre.

Era il 1916, e c’era la guerra, esattamente la prima guerra mondiale che ha provocato alla nostra nazione più morti di tutte le altre guerre. Mio padre era in trincea, in qualche parte del fronte, forse sul Carso, insieme ad alcuni suoi compagni.

Era una notte profonda, il cui buio, però, era interrotto in continuazione dai bombardamenti austriaci. Penso che sia stata in occasione della grande offensiva che l’Austria volse contro di noi, dopo la caduta del fronte russo. Volevano sfondare a ogni costo le nostre linee.

Mio padre era stanco, assonnato, seduto su una cassa vuota di munizioni e con le spalle appoggiate alla trincea di fango. I suoi compagni erano seduti in ordine sparso lungo la trincea, come in attesa di qualcosa o come rassegnati a quella vita di inferno.

Mio padre sentì freddo e allora si coprì le spalle con una vecchia coperta. Aprì gli occhi e diede uno sguardo alla fetta di cielo che si intravedeva dal fondo della trincea: i bagliori delle cannonate la illumi

navano di continuo, facendo intravedere un cielo pieno di nubi, come se volesse piovere.

Mentre stava così, leggermente intorpidito dal sonno, a un tratto sentì una voce che gli diceva:

  • Spostati, spostati!

Mio padre rimase sorpreso, perplesso, non sapeva spiegarsi l’origine di quella voce, ma questa gli ripeteva: spostati, spostati!

Senza pensarci troppo o perché era troppo stanco per opporsi a quell’ordine irrazionale, ubbidì. Spinse con il braccio un suo compagno, che gli era seduto accanto, chiedendo di farsi più in là. Quest’ultimo, mezzo assopito dal sonno, brontolando in malo modo, gli fece posto e mio padre si sedette qualche metro più in là.

Dopo nemmeno un secondo che mio padre si era mosso, là dove era prima seduto, si conficcò una pallottola vagante di grosso calibro, una shrapnel.

Mio padre rimase di stucco, se non avesse cambiato posto sarebbe rimasto ucciso. Anche i suoi compagni rimasero esterrefatti, dissero che aveva avuto una fortuna del diavolo. Ma mio padre sapeva che non era stata la fortuna, una voce gli aveva detto di spostarsi.

Lassù, in cielo qualcuno aveva deciso che doveva vivere ancora. Era stato il suo angelo custode a salvarlo?

Lui è sempre stato convinto di sì e fino agli ultimi anni di vita gli ha reso testimonianza non dimenticando mai di ringraziarlo nelle sue preghiere.

Vi prego di pubblicare questa lettera per onorarne la memoria, perché ormai è morto e riposa in cielo con i suoi compagni che l’avevano preceduto in quella brutta guerra.

Antonietta M. – Latina

LA BACINELLA D’ACQUA

Mi chiamo Orsola e le scrivo per raccontarle un episodio miracoloso di cui è stato protagonista più di quarant’anni fa mio marito, quando era ancora un bambino.

Era l’anno 1962 e si era nelle prime giornate di primavera. Mia suocera allora, con suo marito e quattro bambini abitava in un piccolo paese alle falde del Vesuvio. I suoi piccoli, come tutti quelli del vicinato, giocavano quasi tutto il giorno nello spiazzale del cortile davanti alle case. Le abitazioni erano piccole e non avevano all’interno abbastanza spazio per permettere ai bambini di giocare o soltanto di muoversi più liberamente.

Mio suocero, che faceva il piastrellista, stava tutto il giorno fuori per lavoro, perciò doveva pensare a tutto mia suocera. Un giorno quest’ultima fu interrotta nel suo lavoro dalle grida che lanciavano i bambini e la gente dal cortile. Incuriosita corse fuori, rimanendo impietrita dal terrore. Alcune persone sorreggevano tra le braccia il suo bambino completamente esanime.

Il piccolo Umberto, così si chiamava, un po’ per gioco, un po’ per curiosità si era avvicinato al filo spinato di una recinzione di un allevamento di pulcini. Dato che nel filo passava la corrente elettrica, poggiando la manina era stato colpito da una forte scarica.

Credendolo morto, a un certo punto, appoggiarono il bambino a terra nel cortile.

Mia suocera, che allora era incinta di circa sette mesi del terzo figlio, cadde in ginocchio, disperata vicino al corpicino del bambino, sicuro che fosse già morto. Quest’ultimo, infatti, non dava più segni di vita.

Qualcuno le disse che avevano già chiamato un’ambulanza, ma tutti erano convinti che quando fosse arrivata, sarebbe stato ormai troppo tardi.

In quel trambusto di grida di disperazione e pianti di mia suocera e di altre donne accorse, si fece largo un giovane. Aveva tra le mani una bacinella colma d’acqua che porse a mia suocera. Quest’ultima d’istinto l’afferrò, l’appoggiò a terra e poi prese dell’acqua con le mani e bagnò il viso del figlio.

È ancora inspiegabile, ma il bambino a contatto con quell’acqua, che sembrò miracolosa, riprese a respirare e poi a piangere spaventato, ma vivo.

Vi furono grida di gioia e di sollievo. Mia suocera portò in braccio il bambino all’interno della casa, appoggiandolo sul letto.

Finalmente arrivò il dottore, che lo visitò: non aveva niente, se l’era cavata soltanto con uno spavento e due dita bruciacchiate!

La donna, appena riacquistò la calma, si ricordò dell’uomo che le aveva dato la bacinella d’acqua ed uscì nel cortile, per ringraziarlo. Ma del giovane e della bacinella non c’era traccia. Chiese a tutti, ma nessuno lo conosceva o aveva visto dove era andato. Era semplicemente svanito nel nulla.

Sì, tutti lo avevano visto, ma nessuno sapeva chi era. Di sicuro non abitava nelle vicinanze.

Continuò a cercarlo a lungo anche nei giorni successivi, ma nessuno le seppe mai dire niente.

Vicino casa sua c’era una piccola cappella, mia suocera vi si recò per ringraziare Dio di quel miracolo e pianse a lungo.

Ancora oggi a distanza di più di quarant’anni, quando parla di quell’episodio, dagli occhi spuntano copiose lacrime che incominciano a rigarle le guance ormai rugose.

Lei non ama parlarne e spesso rifiuta di raccontare questo episodio per paura di essere derisa, così è toccato a me scrivere. È ancora convinta che quel giovane bellissimo che gli porse la bacinella d’acqua fosse un angelo e la sera non manca mai di ricordarlo nelle sue preghiere.

Mio marito porta sul pollice sinistro ancora la cicatrice di quell’esperienza. Quel giorno è stato salvato da un angelo, che sia il suo o quello di mia suocera, poco importa.

C. Orsola _ Trecase (Napoli)

LA VOCE DI UN ANGELO

Mi chiamo Maria, ho 42 anni e sono di Fratte, una frazione del comune di Salerno. La vita era stata generosa come me, avevo un marito che mi adorava, una bambina bellissima, che era la gioia della mia vita, una bella casa e una buona posizione economica. Mi illudevo che quella felicità avesse potuto durare per sempre, invece un giorno incominciò un terribile incubo.

Delle perdite mi misero in allarme, per prima pensammo a un’infezione, poi mi rivolsi a un bravo ginecologo, che mi fece fare delle ecografie. Il responso fu spietato: tumore all’utero.

Passare da un giorno all’altro da una vita normale, felice a quella di un malato di cancro, fu terribile.

Incominciò il calvario da un ospedale all’altro. Fui operata, ma il male si riformò. Feci la chemioterapia, ma fu tutto inutile. Lottai per mesi contro quella terribile malattia, senza speranza.

Un giorno stavo in ospedale, a letto in uno stato di dormiveglia. Ero depressa, perché non vedevo ormai nessuna prospettiva di vita per me. I medici, ne ero sicura, lo intuivo dalle loro parole, mi davano per spacciata.

Cercavo di farmi forza, ma non ci riuscivo in alcun modo, neanche provando a rendere il pensiero della morte meno terrificante. Mi dicevo che me ne sarei andata a riposare là in montagna (infatti, avevo espresso il desiderio di essere seppellita nel piccolo cimitero del mio paese nativo), mi ripetevo che lassù in cielo sarei stata meglio che qui sulla terra, che in fondo avrei smesso di soffrire, ma … poi … il pensiero della mia bambina mi gettava di nuovo nella più cupa depressione.

Come sarebbe cresciuta senza di me? Se mio marito si fosse risposato, chi si sarebbe preso cura di lei? In quali mani sarebbe capitata?

Il solo pensiero che tra alcuni anni sarebbe diventata una bella signorina, ma io non l’avrei potuta vedere, era un tormento per me.

Mi capite, un giorno si sarebbe sposata, avrebbe indossato un bellissimo abito bianco (come erano di moda all’epoca, mentre oggi si usano color champagne) con un lungo strascico, per salire sui gradini di una chiesa, ma io non ci sarei stata. Penso che sia il sogno di tutte le mamme, quello di vedere la propria figlia sposa felice, mentre si reca all’altare, ma per me quel giorno … ci sarebbe stato solo un posto vuoto … in cui forse, una mano pietosa avrebbe messo un piccolo fascio di fiori in mia memoria.

È brutto lasciare questa vita prima di aver visto i propri figli diventare grandi e formare una nuova famiglia. Ma il destino aveva deciso così per me e non c’era modo di ribellarsi.

Era come se fosse arrivato qualcuno a ordinarmi di prepararmi perché dovevo abbandonare questo mondo e non potevo portare nessuna delle mie cose con me. Le uniche cose che mi avrebbero accompagnata nell’altra vita erano i miei ricordi.

Avrei ricordato la mia bambina così come la vedeva adesso per sempre. Mio marito, i miei cari sarebbero rimasti per me sempre uguali, poiché non avrei saputo mai più niente di loro.

In questa condizione psicologica disastrosa mi rivoltavo nervosa nel letto cercando di appisolarmi, ma non riuscivo a dormire. A un certo punto mi sembrò di sentire una voce che mi diceva:

  • Accendi la televisione, accendi le televisione!

Aprii gli occhi, svegliandomi del tutto. Non riuscivo a spiegarmi quella voce, ma soprattutto ero scettica.

Ma quella voce ancora più concitata, mi ordinava:

  • Accendi la televisione, accendi le televisione!

La seconda volta fui certa di non aver avuto un’allucinazione. Ne ero sicura, non mi ero sbagliato, l’avevo udita veramente.

Chi era? Che cosa voleva dire?

Nonostante ciò, non mi muovevo, quasi paralizzata da un’apatia enorme. L’unica cosa che desideravo, era lasciarmi andare.

Ma quella voce mi aveva colpito e desideravo ubbidirle.

Accendere le televisione e perché? Che cosa poteva cambiare nella mia vita? Che serviva vedere televisione, se dovevo morire?

Finalmente mi mossi, ma più per tacitare la mia coscienza, che per convinzione. Lentamente, mi alzai. Mi misi a sedere sul letto, la testa mi girava un po’. Non c’era nessuno in quel momento nella mia stanza che avesse potuto aiutarmi, ma riuscii lo stesso a rimettermi in piedi.

Feci il primo passo, poi un altro, ma la televisione era lontana, posta in alto … il pulsante mi sembrava irraggiungibile

Poi mi appoggiai al muro, un altro passo, c’ero quasi. Allungai la

mano, lentamente le dita si stendevano verso … un ultimo sforzo, poi premetti il pulsante e la televisione si accese.

Mi appoggiai al muro, come esaurita dal mio sforzo. Presi fiato e poi lentamente tornai a letto, questa volta più agevolmente.

Mi infilai sotto le coperte e mi misi a guardare le televisione, ormai completamente sveglia e cosciente.

C’era una trasmissione di medicina in cui si parlava del celebre medico modenese Di Bella, che aveva inventata un nuova cura contro il cancro.

Ascoltai tutto con estrema attenzione, bevendo ogni parola di quello che dicevano. Quando finì la trasmissione, fui colta da una folgorazione. Qualcosa mi convinse che dovevo seguire anch’io quel metodo. Una forza sconosciuta dentro di me mi spingeva a farlo.

Telefonai a mio marito, gli dissi di venirmi a prendere appena poteva. Mi chiese che cosa era successo. Io gli risposi che mi ero stancata di stare in ospedale e che volevo tornarmene a casa, vivere in pace quei pochi giorni che mi restavano da vivere, senza il martirio di quelle siringhe con cui continuamente mi bucavano, senza la vista squallida di quel reparto con altri malati gravi come me.

Pensò che fosse una delle mie solite crisi, ma io gli dissi che non avrei cambiato idea e che perciò si tenesse pronto per riportarmi a casa.

Terminato di telefonare, incominciai a prepararmi le mie cose e decisi quale vestito mettermi per uscire dall’ospedale. Lo so, che può sembrare una cosa stupida, ma era una delle poche cose che mi teneva ancora attaccata alla vita.

Alcune ore più tardi, venne mio marito. Cercò di farmi cambiare idea, di convincermi che lì sarei stata curata bene, ma io fui inflessibile: volevo farmi curare col metodo Di Bella.

Egli obiettò, che non era una cura scientifica, che quasi sicuramente si sarebbe tutto risolto con una bolla di sapone e che un giorno si sarebbero dimenticati di questo medico.

Replicai che dal momento che dovevo morire, volevo scegliere almeno io il modo. La scienza ufficiale non mi dava nessuna possibilità, era una malata terminale di cancro; spacciata per spacciata, meglio tentare.

Mio marito a queste parole non disse più niente, mi aiutò ad indossare il soprabito, prendemmo le valigie, firmammo il registro assumendoci ogni responsabilità e andammo via.

Una tristezza enorme pervadeva i nostri gesti lenti e stanchi.

Dopo vari tentativi, finalmente riuscimmo a trovare il contatto giusto. Ci diedero un appuntamento con il prof. Di Bella, a Modena. Dopo alcuni giorni mi recai là, accompagnata da mio marito, e fui visitata da lui, che mi prescrisse la sua famosa cura.

Sarà stato l’effetto placebo, saranno state le preghiere che dicevo tutti i giorni alla Madonna, sarà stato qualche miracolo di qualche santo distratto, ma la cura funzionò ed io guarii completamente. Sono tuttora convinta che è una cura che funziona veramente.

Se un giorno un angelo non mi avesse detto, anzi ripetuto due volte, di accendere le televisione, forse non avrei mai saputo del metodo Di Bella e non sarei qui a raccontarla. Non solo, ma deve essere stata

una forza divina a rendermi così risoluta a provare questo tipo di cura. Una persona normale avrebbe ascoltato quanto dicevano per televisione, poi si sarebbe limitata a chiedere informazioni a qualche medico, che gli avrebbe risposto che non era una cura scientifica, e sarebbe finito tutto là.

Io, invece, mi mostrai decisa ad andare avanti ad ogni costo, contro qualsiasi logica, fin dal primo momento.

A un controllo a distanza di alcuni mesi, il mio male si era fermato, poi iniziò a regredire. Oggi sto bene, anche se vivo sempre con l’ansia che si possa riformare, ma ho ricominciato a credere nella vita. Penso che ormai ho superato il periodo critico: se non si è riformato fino adesso, infatti, non si riforma più.

La mia bambina è diventata quasi una signorina e quest’anno mi ha dato anche la gioia di essere stata promossa con ottimi voti. Secondo i professori è una delle migliori della classe, forse di tutta la scuola.

Mi ama tantissimo e mi ripete sempre che da grande vuole fare la dottoressa, perché non vuole mai più stare un lungo periodo lontana dalla sua mamma, come successe allora, quando vagabondavo da un ospedale all’altro.

Io le ho promesso, che se mi ammalerò, lo farò quando lei si era già laureata e quindi mi potrà curare personalmente.

ANNA D. _ Fratte (Sa)

UN AVVERTIMENTO CELESTE

Ho 84 anni e vivo su una sedia a rotelle. Lo so, mi restano ancora pochi anni, forse mesi da vivere, ma prima di fare l’ultimo viaggio, quello senza ritorno, ho una testimonianza da fare. Un racconto da rendere pubblico, un fatto che mi è successo tantissimi anni fa, quando ero ancora giovane e di cui non ho mai parlato con nessuno perché ancora oggi mi vergogno come un ladro.

Mia moglie è ormai morta e ora riposa in un piccolo cimitero di campagna, nel paese da cui ci siamo trasferiti da giovani, per cui non mi può più rimproverare, ma non è per questo che ho aspettato tanto.

Giorni fa una mia nipotina mi portò un libro sugli angeli e me lo lasciò in grembo. Era il suo libro, signor Gargione. Inizialmente fui scettico ad aprirlo. Infatti, difficilmente leggo dei libri perché li trovo troppo pesanti, fumosi, intellettualoidi, pieni di parole complesse e vuote, perciò preferisco guardare la televisione.

Ma la semplicità delle sue prime pagine mi colpì. Quel libro mi avvinse già dalle prime frasi, incominciai a leggerlo con una certa freddezza, poi a poco a poco mi piacque sempre di più, cosicché lo divorai. L’unico difetto che aveva è che finiva troppo presto, sign. Gargione.

Per questo motivo lo lessi più volte e, di tanto in tanto, ne rileggo ancora qualche storia, quasi fosse la Bibbia. Non mi era mai successo prima.

In uno di quei racconti si dice che bisogna dare testimonianza al Signore. Fu in quel punto che mi bloccai, pensieroso. Già da tempo avevo pensato di rendere pubblico ciò che era successo a me, ossia l’evento straordinario che mi aveva cambiato la vita e che avevo sempre tenuto nascosto per vergogna.

Non ho potuto fare a meno di pensare che il suo libro mi era stato fatto giungere da un essere celeste proprio per rendere testimonianza di quanto mi era successo tanti anni fa, ma mi rendo conto che si tratta di fantasie. La mia nipotina desiderava solo farmi un regalo gradito e cosa c’è di più bello che regalare a un vecchio nonno un libro sugli angeli? Dovrebbero farlo tutti i nipoti.

A pagina 95 c’era il suo indirizzo e l’invito a raccontare la propria storia. Era l’occasione che aspettavo da sempre. Ora o mai più, mi dissi, ho un obbligo di gratitudine verso il mio angelo e lo devo adempiere.

La mia è una storia maledetta, terribile da raccontare. Il suo ricordo emerge a distanza di tantissimi anni, anche se in realtà è rimasta sempre dentro di me col suo carico di vergogna e di sensi di colpa. Ho cinque bellissimi nipoti, tre femmine e due maschi, alcuni di essi sono quasi adulti, altri adolescenti, e non so se faccio bene a raccontare tutto, non vorrei turbare la loro vita con l’immagine di un nonno depravato, per questo le chiedo di non citare il mio nome.

È una storia oscura che pensavo di aver seppellito tra le cianfrusaglie dell’anima, ma che è riemersa, come d’incanto, leggendo le sue pagine. L’avevo forse troppo a lungo rimossa e perciò era giusto che me ne liberassi e chiedessi perdono prima di presentarmi davanti al buon Dio.

Così un pomeriggio, quando ero solo, ho preso dei fogli e una penna ed ho incominciato a scrivere stando attento a non essere visto, in quanto ero terrorizzato dall’idea che qualcuno dei miei familiari potesse sorprendermi e leggere quanto stavo scrivendo. Ciò per fortuna non è successo.

Non le nego, che mentre la mano scorreva sugli eterni fogli bianchi delle grosse lacrime sono spuntate ai miei occhi aridi che non hanno pianto nemmeno il giorno della morte di mia madre.

Si, devo confessarlo, anch’io devo la mia vita a un angelo, non nel senso che mi ha salvato da sicura morte, ma che ha impedito che mi perdessi nella strada del vizio e del peccato. E quel che è ancora più grave è che non l’ho mai ringraziato. Vorrei farlo ora con questa mia testimonianza.

A chi è molto sensibile, non consiglio di andare avanti perché le cose che sto per raccontare sono davvero disgustose e ancora oggi ne provo vergogna. Spero che lei, da bravo autore, ne saprà ammorbidire i contenuti scrivendo la storia in una forma opportuna, ma ciò non toglie che le azioni fatte tanti anni fa erano davvero ripugnanti.

Ero giovane e inesperto della vita e mi ero avventurato nell’oscura strada della perdizione. Ero un feticista, questo è il mio terribile segreto, un peccato che ancora oggi confesso con la voce tremante e lo sguardo basso. Non so se conoscete il terribile significato di questa parola, la perversione intrinseca in questo termine. Lo so, che queste cose si leggono solo sui libri di psichiatria, ma era accaduto proprio a me ed allora non mi rendevo conto della mostruosità della mia deviazione.

Oggi che sono passati tantissimi anni da quei giorni, che ho alle spalle un matrimonio felicissimo durato quasi quarant’anni con una donna da cui sono stato separato solo dalla morte, oggi che ho tre figli

adulti ormai padri e capo famiglia, mi chiedo se ero io quella persona o era un altro. Come potevo forse certe cose? Era il diavolo ad essersi impossessato di me?

Si, avete capito bene, mi eccitavo … alla vista di indumenti intimi femminili. In particolare ero attratto dagli slip bianchi merlettati, meglio se leggermente trasparenti. Spesso arrivavo a rubarli dalle case dei miei parenti, sottraendoli dai cesti della biancheria sporca, perché lì preferivo usati. Soprattutto desideravo quelli che erano stati indossati da donne giovani e belle, non importa se queste erano parenti stretti o cugine di primo grado.

Coltivavo questa insana passione da anni, collezionavo di nascosto capi di biancheria intima femminile, che nascondevo in una busta di plastica nel doppiofondo che avevo creato dietro una libreria per evitare di essere scoperto da mia madre. Allora frequentavo l’università.

Quando incominciai a rendermi conto di essere diverso dagli altri, di avere quest’insana passione, cercai di oppormi con la forza di volontà, ma fu tutto inutile. All’inizio pensavo che col tempo mi sarebbe passata da sola, avrei cominciato a frequentare qualche donna, mi sarei innamorato e un giorno avrei buttato nel fiume il pesante fagotto dei miei feticci, ma gli anni passavano e ciò non succedeva.

Un giorno ebbi chiaro davanti a me la vita che mi aspettava. Io non mi sarei sposato, non avrei avuto dei figli, degli affetti, una volta adulto sarei andato a vivere da scapolo in un appartamento da solo, le cui stanze immaginavo piene di biancheria intima femminile.

A volte, come in un incubo, mi immaginavo a chiudere le porte degli armadi per nascondere la mia vergogna, ma quei slip, quei reggiseni, quei baby doll di tutti i colori e le forme, traboccavano da tutte le parti così non riuscivo ad impedire che si riversassero sul pavimento, rivelando a tutti il mio terribile segreto.

Sono scene ridicole, assurde, che possono far sorridere, ma io ne ero atterrito. Avrei voluto una vita come gli altri, una donna da amare per tutta la vita, avere dei bambini da allevare, ma chi mai mi avrebbe sposato quando avrebbe scoperto che era ossessionato da quella terribile perversione?

Non c’è buio più grande di quanto si sta lontani da Dio, ed io non mi rendevo conto di essere come un cucciolo che si era perso nel mondo. Quando capii dove mi portava la mia insana passione cercai di lottare, di oppormi, di cambiare strada, ma senza speranza. Ogni volta mi proponevo di smettere, ma poi puntualmente ci ricadevo. Arrivai più volte a buttare via i miei feticci, ma poi mi resi conto che facevo malissimo, in quanto pur di procurarmene di nuovi, ero pronto a correre rischi altissimi.

Più volte fui sul punto di essere scoperto quando rubavo qualcuno di questi indumenti. Non solo, ma ero convinto che alcune donne, in particolare una mia zia, sospettassero di me e mi tenessero d’occhio. Per questo motivo decisi di non buttarli più, meglio collezionarli per saziare la mia insana passione che rischiare di essere scoperto per procurarmene di nuovi e perdere così la stima dei miei parenti. Nella vita, si sa, bisogna scegliere sempre il male minore.

Ciò che rendeva la mia passione pericolosa era il fatto che fossi attratto da indumenti intimi usati. Se avesse preferito quelli nuovi potevo andarli a comprare nei negozi di qualche città vicina (fingendo di acquistarli per la mia fidanzata) o di un quartiere in cui non ero conosciuto e non correre inutili rischi. Ma preferivo quelli che erano stati
già usati, meglio se da una bella ragazza.

Nel caso, invece, non conoscevo niente della donna che l’aveva indossati, non c’erano grossi problemi perché la mia fantasia colmava il gap. Dalla forma e dalla grandezza mi rendevo conto delle fattezze della donna che, quasi sempre, immaginavo bellissima e seducente.

Quando diventò difficile rubarli alle mie cugine o alle ragazze, di cui frequentavo la casa, per procurarmeli altri, perché avevo bisogno sempre di nuovi stimoli, inventai un “sistema” che può darvi un’idea di quanto la mia mania fosse ormai arrivata a un livello patologico. Giravo di notte per le strade e mi arrampicavo sui balconi delle case per rubarli mentre erano stesi fuori ad asciugare. Chiaramente ciò era possibile solo quando si trattava di finestre o balconi di appartamenti ai piani rialzati o al massimo al primo piano, a cui era possibile arrampicarsi facilmente.

Più volte fui sul punto di essere scoperto. Se fosse successo, si sarebbe trattato di furto, mi capite? Com’avrei potuto spiegare ai poliziotti che non volevo rubare oggetti di valore, ma solo un po’ di intimità?

C’era il codice penale per questo. Potevo andare in galera, i miei facilmente mi avrebbero tolto dalle università e mandato a lavorare, perciò con quegli atti irresponsabili, mi giocavo un po’ tutta la vita. Invece che un medico, sarei diventato un operaio nonostante avessi un fisico deboluccio.

E poi, data la situazione insolita, forse avrei attirato l’attenzione di qualche cronista e sarei finito sui giornali. Allora non esisteva la legge sulla privacy, potevi finire, dipinto come un mostro, in prima pagina per una sciocchezza. La gente mi avrebbe riconosciuto per strada e additato come un maniaco perciò sarei stato costretto a cambiare città, a lasciare amici e parenti ecc..

Non era nemmeno da stato sottovalutare il pericolo che invece della polizia avrebbe potuto sorprendermi un conoscente e rivelare a tutti il mio terribile segreto.

La mia famiglia mi avrebbe capito? Probabilmente, sarei morto prima dalla vergogna.

Già una notte una vecchia mi aveva sorpreso a gironzolare sotto le sue finestre, ma dato che non avevo preso ancora niente (infatti avevo l’abitudine di studiare prima la situazione), riuscii a inventarmi la storiella che stavo cercando un braccialetto che avevo perso e così me la cavai senza danni.

Mi dicevo che dovevo smettere, promettevo ogni notte di non farlo più. Dicevo questa è l’ultima volta, lo giuro, non ne ruberò di nuovi, ma ogni volta ci ricadevo. Resistevo alcuni giorni, ma poi ricominciavo sempre. La notte mi svegliavo come in preda a un raptus.

Una forza oscura si impossessava di me e mi costringeva ad alzarmi dal letto. Diventavo una specie di lupo mannaro.

Poi un giorno un angelo mi salvò, forse fu il mio angelo custode, ma fu sicuramente un essere extraterreno che fece il miracolo e mi strappò dalla buia via della perdizione che avevo intrapreso.

Ecco come si svolsero gli eventi.

Come tante notti, anche quella mi ero svegliato in preda a un eccitamento perverso, come un vampiro assetato di sangue. Mi alzai dal letto in silenzio, mi vestii senza accendere la luce e in punta di piedi, per non essere udito da mia madre, mi diressi verso la porta. Uscii nelle scale e rinchiusi la porta dietro di me, usando la chiave in modo che non facesse il rumore dello scatto della serratura.

Dopo pochi minuti ero fuori, nel buio della notte, in mezzo a strade deserte fuggite persino dai cani randagi. Mi sentivo come un cacciatore alla ricerca di una preda.

Mi diressi verso alcuni quartieri popolari non molto lontani da casa mia, in quanto li c’erano tantissime case con i piani bassi.

Cercai a lungo, ma quella notte non trovai quasi niente. Era estate e perciò la maggior parte delle donne aveva ritirato la biancheria intima, in quanto già asciutta. Gli altri tipi di biancheria, che necessitava di maggior tempo per asciugare, infatti, non mi interessavano affatto. Ma io sapevo che c’erano anche le donne che lavoravano, quelle che andavano all’università durante il giorno, queste ultime erano solite fare il bucato la sera e poi mettevano i loro capi intimi fuori ad asciugare. Erano queste le mie vittime predestinate.

Camminai per più di mezz’ora senza trovare niente, poi notai degli indumenti che mi potevano interessare a una finestra, ma passandoci sotto mi resi conto che erano di pessima qualità, inoltre nel palazzo di fronte c’era ancora una luce accesa. Sicuramente una persona insonne e non era il caso di rischiare.

Ripresi a camminare e dopo solo due isolati trovai quello che cercavo.

Ho ancora il ricordo vivo di quella casa, era bassa a soli due piani. Al primo piano si accedeva tramite una scala esterna, che a metà altezza era sbarrata da un cancello di ferro, chiuso a chiave. Sul pianerottolo che fungeva anche da balcone, c’era stesa molta biancheria intima femminile. Vi passai di sotto, ispezionando con lo sguardo la merce con attenzione.

Non solo era di ottima qualità, ma erano cose davvero sfiziose. Inoltre dalla taglia si capiva che dovevano appartenere sicuramente a una giovane donna, bella, che amava far colpo sugli uomini. Le signore o erano grasse o non spendevano tanti soldi per la biancheria intima in quanto dovevano provvedere ai figli.

Feci due giri dell’isolato per studiare la situazione. Non c’era anima viva in giro, né luci accese nei palazzi vicini, ma era necessario pianificare il colpo con intelligenza. Dovevo arrampicarmi lungo la ringhiera fino all’altezza del cancello, qui scavalcare all’esterno, per poi arrivare fino ai capi che mi interessavano. Meglio non prendere tutto, poiché così avrebbero pensato a un furto. Se, invece, prendevo solo quelli più belli, avrebbero creduto che fosse stato un colpo di vento ad averli portati via.

Così feci, mi arrampicai, scavalcai il cancello restando sempre all’esterno, appena arrivato al mio obiettivo, con una mano mi tenevo e con l’altra sganciavo gli oggetti desiderati. Mettevo quelli più piccoli in tasca mentre facevo cadere gli altri a terra. Li avrei raccolti dopo.

Feci tutto in meno di un minuto, poi ridiscesi per la stessa via. Evitai di saltare perché le scarpe sull’asfalto avrebbero fatto molto rumore e potuto attirare l’attenzione di un eventuale passante.

Appena fui a terra, raccolsi rapidamente gli indumenti che avevo fatto cadere. Li misi insieme agli altri formando una specie di fagotto e mi diressi verso casa, non prima di aver dato un’occhiata intorno per sapere se ero stato osservato da occhi indiscreti.

Invece, niente, anche questa volta ero stato fortunato, non mi aveva visto nessuno. Era tutto buio, tutto taceva e le luci dell’edificio di fronte erano tutte spente.

A grandi passi mi diressi verso casa. Era soddisfatto e insieme eccitato del colpo fatto: avevo raccolto materiale eccellente. Pregustavo già la gioia di quanto avrei potuto esaminarli a casa con attenzione.

Camminai per circa 5 minuti, poi svoltai in un viale alberato. Ormai non mancava molto a casa mia, ancora pochi minuti e sarei arrivato. Ero calmo e disteso, anzi euforico perché era andato tutto liscio.

Fu allora che sentii quella voce. La prima volta non ci feci caso, pensai di essermi sbagliato.

Poi la sentii ancora più forte, mi diceva in maniera chiara e decisa: “Buttali, buttali!”

Pensai di aver avuto un collasso nervoso. Perché dovevo buttarli se non c’era nessun pericolo?

Se si stava avvicinando una macchina, avrei dovuto sentirne il rumore!

Ma quella voce insisteva, era concitata, come allarmata da un pericolo imminente: “Buttali, buttali!”

Non mi sbagliavo, non era un’allucinazione. Qualcuno mi diceva di buttarli via … eppure intorno a me non c’era nessuno.

Mi girai di nuovo, facendo un giro completo su me stesso. La strada era completamente deserta, da tutte le parti. Non si sentiva neanche il rumore di qualche auto nei paraggi.

Improvvisamente fui assalito da un impulso in frenabile di liberarmi di quelle cose ed io non fui capace di dire di no. Come un autonoma, allungai il braccio, aprii la mano e lasciai cadere tutto a terra.

Non avevo fatto nemmeno 10 metri, che, sbucata da chissà dove, mi bloccò una volante della polizia . Era sopraggiunta in silenzio, alle spalle e io la vidi soltanto all’ultimo momento. Mi tagliò la strada e due agenti scesero velocemente dall’auto dirigendosi verso di me.

Ringraziai in cuore mio di aver buttato via tutto.

I due poliziotti mi sbarrarono la strada, in modo che non potessi fuggire e mi chiesero i documenti. Io che avevo la pessima abitudine di girare sempre senza, feci finta di cercarli nelle tasche, poi risposi di averli dimenticati a casa.

Mi fecero moltissime domande. Volevano sapere nome, cognome, indirizzo, professione ecc. e perché a quell’ora di notte ero ancora in strada.

Cercai di essere esauriente per evitare di essere portato alla centrale di polizia. Non mi sembrarono molto convinti delle mie risposte, allora mi fecero alzare le braccia e mi perquisirono. Lo so, non lo potevano fare, in quanto non avevo commesso alcun reato, ma la legge o quello che si dice in televisione è vero, solo se ci fossero stati testimoni nelle vicinanze che potevano deporre a mio favore. Se, in qualche modo li indisponevo, mi potevano picchiare, asserendo che avevo fatto resistenza o, addirittura, che avessi tentato di sottrarmi ai loro controlli con la violenza.

In Italia, ma forse è lo stesso in tutte le parti del mondo se due poliziotti ti beccano in una strada deserta possono fare di te quello che vogliono, la loro parola vale molto più della tua.

Dalla perquisizione non emerse niente. In tasca aveva solo il portafoglio con pochi soldi e un fazzoletto. Ringraziai iddio di aver buttato tutto, altrimenti come avrei fatto a giustificare il possesso di quegli indumenti intimi?

Nonostante ciò non furono soddisfatti, qualcuna delle mie risposte li aveva messi in sospetto. Mi fecero salire in macchina e mi portarono alla centrale dove mi perquisirono di nuovo. Anche questa volta non trovarono niente. Il giorno dopo seppi che avevano fatto molti controlli come il mio quella sera, perché durante il giorno c’erano stati dei furti nella zona. Inoltre, cercavano un furgone che era servito per una rapina.

Mi fecero sedere. Per fortuna nonostante le maniere sbrigative non mi usarono mai violenza. Poi ripresero di nuovo ad interrogarmi.

Questa volta non mi fregarono, inventai una storia che si reggeva bene in piedi. Dissi che soffrivo di insonnia e che per riuscire a chiudere occhio dovevo camminare almeno una mezz’ora. Feci il nome di uno psichiatra della zona che conoscevo bene, dicendo che ero in cura da lui.

Era notte fonda, non credo che avrebbero controllato, ma anche se l’avessero fatto, effettivamente c’era stato alcune settimane per un piccolo problema.

Mi chiesero perché non prendevo un sedativo. Gli risposi che era solo un periodo particolare di stress e che se mi abituavo non sarei riuscito più a dormire senza prendere pillole.

Approvarono, mi restituirono la mia roba e si offrirono di accompagnarmi sotto casa, in quanto dovevano tornare nella zona dove mi avevano fermato per altri controlli.

Accettai volentieri, perché la centrale di polizia era abbastanza lontana da dove abitavo. Per la strada i due agenti furono gentili e cordiali.

Io non potei non pensare a come sarebbe andata se mi avessero trovato in possesso di quegli indumenti che avevo rubato e poi buttato via. Nella mia mente vedevo già i titoli dei giornali locali: “arrestato feticista per aver rubato alcuni indumenti intimi femminili.”

Immaginavo già la mia vergogna. Un fatto che avrebbe potuto rovinarmi l’esistenza, cambiando in peggio, come ho accennato il corso della mia vita. Avrei subito un processo e forse sarei stato costretto a cambiare città.

Arrivato sotto casa, scesi dall’auto. Ringraziai l’agente che era seduto sulla destra, poi salutai con un cenno anche quello che era seduto al volante. Fu allora che mi successe un fatto strano. Quando mi avvicinai per dargli la mano, all’improvviso lo riconobbi:

Era Carboni, il mio sergente. Rimasi esterrefatto di quella scoperta.

Carboni era il sottoufficiale che mi aveva istruito e guidato durante il CAR. Dovete sapere che avevo fatto il CAR a Bari in una caserma tristemente famosa in quanto era una specie di lager per reclute. Furono i due mesi peggiori della mia vita, spesso mi stettero per saltare i nervi e rischiai di finire in prigione. L’unica persona che mi fu amica fu Carboni. Ma non voleva bene solo a me, ma anche alle altre reclute. Quando succedeva qualcosa interveniva lui e senza perdere la calma con la sua voce dolce, ma autoritaria, ci spiegava dove stavamo sbagliando e riusciva a ricomporre i litigi in pochi minuti. Era una di quelle persone di cui ho conservato un ricordo bellissimo per tutta la vita.

Quando lo riconobbi, il primo impulso fu quello di andargli incontro e di abbracciarlo, ma stranamente non feci niente di tutto ciò. Mi limitai a salutarlo con un cenno di mano ed andai via.

L’altro poliziotto, mi disse: “Vai a casa e mettiti a letto!”

Salutai di nuovo anche lui. Incamminandomi verso casa incominciai a riflettere su Carboni. Era evidente che avevo avuto un’allucinazione. Non poteva essere. Se fosse stato veramente lui, lo avrei riconosciuto quando l’avevo visto la prima volta. E poi Carboni era rimasto nell’esercito, non poteva essere passato nella polizia, inoltre viveva a Bari, una città lontana dalla mia centinaia di chilometri.

Mi girai per osservarlo meglio mentre questi girava la macchina per tornare indietro. Effettivamente gli rassomigliava un po’, ma non era lui. Avevo avuto un’allucinazione, a volte succede per la tensione. Era la prima volta che venivo arrestato e portato in centrale. Avevo avuto tanta paura e poi l’avevo scampata bella. Era stato sotto tensione per più di mezz’ora.

Ad ogni modo, ansioso di tornare a casa non ci pensai su. Dovevo al più presto ritornare nel mio letto, prima che mia madre si fosse accorto della mia assenza. Lì avrei avuto tutto il tempo di riflettere.

Allungai il passo e a grandi falcate fui a casa. Evitai di correre per non attirare l’attenzione di qualche altra pattuglia di polizia.

Appena fui nel calduccio del mio letto, ebbi modo di riflettere. L’avevo scampata bella! Se mi avessero trovato addosso quegli indumenti intimi, non so proprio come sarebbe andata a finire.

Ma chi mi aveva avvisato? Chi era stato a salvarmi? Quella voce poteva essere stata un’allucinazione come quella di Carboni?

No, per una ragione semplicissima: la prima volta, quando l’avevo sentita non ero teso, ero perfettamente calmo. Non sospettavo minimamente di essere in pericolo. Il colpo era andato bene e dovevo semplicemente rientrare a casa. Non c’era in me la minima paura o tensione, non potevo immaginare minimamente che all’improvviso

sarebbe apparsa una volante della polizia.

No, c’era qualcosa di soprannaturale in tutto questo. Solo qualcuno che non era di questo mondo poteva avvertirmi di una cosa del genere. Il tempismo era troppo perfetto, per essere casuale.

E poi, mi ero girato più volte intorno, non c’era nessuno, quindi non mi sarei mai aspettato una macchina della polizia. Era l’ultimo pensiero nella mia mente.

Forse, avevo soltanto creduto di sentire una voce?

Anche qui ero sicuro di non essermi sbagliato. L’avevo sentita veramente, non aveva detto una sola volta: “Buttali”, ma più volte. Mi potevo sbagliare la prima, la seconda volta, ma quella voce l’ho sentita almeno 3 – 4 volte. Non poteva essere il frutto della mia fantasia.

E poi se non l’avessi udita, non avrei mai buttato via quella roba e sarei finito male, forse in galera.

Ero uscito centinaia di volte di notte a caccia per soddisfare la mia insana passione e non mi era mai successo niente del genere. Quella sera non sapevo che c’erano stati dei furti e che la polizia stesse controllando tutte le persone nella zona, quindi non ero in allarme.

Le allucinazioni scaturiscono sempre da paure interne, da sensi di colpa, si verificano quando ci sono alterazioni di stati di coscienza. Io, invece, ero calmo, ormai mi sentivo al sicuro e stavo rientrando tranquillamente a casa.

Inoltre, il tempismo era perfetto, perché avevo sentito quella voce solo 1 minuto prima che mi fermasse la polizia? Se era un’allucinazione perché non l’avevo avuta un’ora o 10 minuti prima?

Se qualcosa o qualcuno ti avvisa di un pericolo un istante prima che si verifica, non è coincidenza, è veramente un fatto soprannaturale.

La verità è che un angelo aveva voluto salvarmi. La voce era la sua, aveva visto la volante della polizia e mi aveva gridato:”Buttali, buttali!”.

Io, per fortuna, dopo molte esitazioni, gli avevo ubbidito. E anche questo è indice che si trattava di un fatto vero. Mi aveva ripetuto più volte quell’ordine finché non l’avevo eseguito.

Se fosse stata solo un’allucinazione, dopo qualche attimo la voce sarebbe cessata.

Quando siamo davanti a un fatto soprannaturale bisogna riconoscerlo, allo stesso modo che bisogna sempre cercare di essere scettici e non cadere nelle trappole tese dai nostri sensi che molto spesso si sbagliano e vedono o sentono cose che non esistono.

Perciò quella voce era vera, mentre mi ero sbagliato riguardo il sergente Carboni. Era soltanto uno che gli rassomigliava.

E, poi, le circostanze erano completamente diverse.

Nel secondo caso, ero stato condotto alla centrale della polizia, dove avevo subito una perquisizione e un interrogatorio, ero quindi ero sotto stress.

Per questo motivo ringrazio ancora oggi il mio angelo, senza di lui non so come sarebbe andata la mia vita. Forse non mi sarai laureato, non sarei diventato un buon chirurgo, non avrei avuto una vita felice.

Come è finita poi la storia?

Una volta arrivato a casa, mi resi conto del grande pericolo corso. Se fossi stato arrestato, le cose si sarebbero messe male per me. Mio padre era un uomo all’antica (erano altri tempi, quelli), appena avrebbe saputa la storia mi avrebbe messo a lavorare nell’officina di un meccanico o a fare il muratore. Tutti i miei sogni di fare il medico sarebbero andati in frantumi come castelli di sabbia travolti da un’onda anomala.

Per questo motivo mi imposi di non uscire più di notte a cercare quelle cose lì. Se il mio angelo mi aveva salvato una volta, non poteva farlo sempre. No, non potevo continuare così. Dovevo vincere quella brutta bestia dentro che mi faceva fare certe cose.

A tale scopo il giorno seguente stabilii un piano d’azione. Per prima cosa incominciai a frequentare la chiesa e a pregare qualche volta, cosa che prima non facevo mai. Per secondo mi comprai dei libri di psicologia sull’argomento e cominciai a studiare il problema a fondo. Per terzo, decisi che, per soddisfare la mia insana passione, momentaneamente dovevo ricorrere a capi intimi nuovi, facili da procurare senza alcun rischio.

Non decisi di rivolgermi a uno psicologo per due motivi, perché non avevo molti soldi e chiederli a mia madre significava svelare il mio segreto. Per secondo, avevo troppo vergogna per parlarne con persona viva. Ero talmente bloccato su quel lato, che faticavo a riconoscere persino con me stesso la mia perversione.

I libri che studiai mi aiutarono molto. A poco alla volta capii i meccanismi psicologici che c’erano dietro la mia deviazione sessuale e mi impegnai a superarla. Per farlo decisi di cercarmi una partner. Se vincevo la mia inguaribile timidezza e mi trovavo una donna, si sarebbe semplificato tutto. Come era spiegato in uno di quei libri, dovevo sostituire un piacere malato, con uno sano. Così feci, dopo qualche anno di lotta o meglio di autoterapia, sono riuscito ad uscirne. Mi aiutò moltissimo la donna che poi diventò mia moglie.

Una volta che mi sono innamorato e ho incominciato ad avere qualche intimità con lei, le ho confessato il mio problema. Per carità, non le ho detto che andavo rubando indumenti intimi di notte, ma solo che avevo una predisposizione particolare per certa biancheria.

La pregai di aiutarmi a uscirne perché volevo essere come tutti gli altri, un marito fedele e un buon padre per i nostri futuri figli.

Era una donna molto intelligente e capì subito. All’inizio assecondò la mia passione, ma a poco a poco, mi liberò dai miei feticci, finché non scoprii la sessualità adulta e matura. A un certo punto desideravo ben altre cose, che la compagnia di oggetti intimi femminili.

Una volta sposato le cose migliorarono notevolmente. Mia moglie, come la maggior parte delle donne si portò, senza farlo apposta, in dote tantissima biancheria intima e dato che era molto disordinata trovavo le sue cose per tutta la casa. Non solo non mi faceva piacere, ma ogni volta litigavo per spingerla ad essere più ordinata.

Ero guarito definitivamente.

Quando, poi incominciarono a nascere, a distanza di qualche anno l’uno dall’altro, i miei tre figli, mi dimenticai del tutto di certe cose. Tutto ciò che desideravo era l’abbraccio e le carezze di quelle manine innocenti. La loro voce, le loro grida di gioia e i loro giochi erano la più grande gioia del mondo.

Quell’angelo mi aveva dato la scossa giusta per indurmi a oppormi alla mia insana passione e uscire dal buio della perversione. A chi mi dice che ho creduto solo di sentire delle voci, io rispondo che essere scettici è bene, ma rifiutare di credere a fatti evidenti, è addirittura peccaminoso. Gli angeli che essere meravigliosi, peccato che in questa vita è quasi impossibile incontrarne uno di persona!

Adesso sa tutto, ma non citi il mio nome. Ho ancora tanta vergogna, sia pure siano passati circa 60 anni da quei fatti!

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ARTISTA VINCENZO BENINCASA VB...

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