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GARGIONE

GLI ANGELI, LASSU’, QUALCUNO MI AMA, Terza e Ultima Parte

…SEGUE DA STORIE VERE…

UNA SIGNORA IN BLU SCURO

La storia che le voglio raccontare è una storia bella perché ha un lieto fine. Un giorno un angelo mi ha aiutato e io mi sento in dovere di ringraziarlo.

Mi chiamo Adele Russo e sono di Napoli. Nel 1982 nacque la mia seconda bambina, bella, 3,250 kg, alta 52 cm, ottima salute. Non ebbi nessun problema, l’unica difficoltà, se di difficoltà si può parlare, me la causò mia suocera che voleva che la chiamassi come lei, ma insieme a mia figlia maggiore, avevamo già deciso di chiamarla Roberta.

La prima visita pediatrica in una clinica privata fatta dalla dottoressa Laura M. era andata benissimo, mi ricordo come fosse ieri ancora le sue parole: “Per fortuna, questa sta benissimo”.

A 13 giorni dalla nascita, infatti, pensava già più di tre kg e mezzo. Decisi, però di battezzarla al più presto.

Prima di Natale organizzammo il battesimo. Volevamo fare una festa grande, perché la nascita di questa bambina aveva portato una grande gioia nella nostra vita. Il venerdì, insieme alla figlia maggiore, andammo in chiesa per fare le prove della funzione. Con in braccio Roberta, avvolta in uno scialle (aveva soltanto 26 giorni), mi sedetti nei banchi per assistere alle prove.

Notai che la mia vicina, una bella signora sui 40 anni, molto distinta ed elegante, in un completo in blu scuro, era da sola, cioè non aveva alcun bambino con sé. La cosa mi sembrò molto strana, perché ogni bambino era accompagnato dalla madre o dal padre. Al momento non diedi molta importanza alla cosa, pensai che forse era una madrina.

Dopo un po’ di tempo mi accorsi che guardava con insistenza la mia bambina. La fissai infastidita come per dirle: ma che hai da guardare?

Lei affrontò il mio sguardo e mi disse: “Lavoro al Santobono e le consiglio di portare subito questa bambina in ospedale, non sta bene.”

“Come? – Osai replicare quasi infastidita.

“Non respira bene, ha le nasicchielle1. La porti di corsa in ospedale”

Osservai attentamente la bambina, sembrava normale, ma le parole della signora mi misero in ansia, forse aveva difficoltà a respirare. La cosa che mi convinse di più fu la sicurezza con cui fece tale affermazione.

Uscii dalla chiesa, lasciando perdere le prove, e corsi al Santobono. Il medico che la visitò confermò quanto aveva detto la signora in blu (la chiamo così perché non ne ho mai saputo il suo nome).

  • La bambina respira malissimo, può morire soffocata. Dobbiamo ricoverarla subito.

Me la strapparono letteralmente dalle mani e la portarono nel reparto di terapia intensiva sotto una tenda a ossigeno.

Aveva una malattia con un nome strano che ancora oggi non riesco a ricordare facilmente. Mi sembra che si chiamasse broncopolmonite capillare, ma non ne sono sicuro.

Era una malattia che all’epoca fece molte vittime, alcuni la chiamavano la morte nella culla (a Napoli era chiamata volgarmente nasicchielle), perché i bambini si spegnevano senza alcun sintomo specifico, morivano semplicemente per asfissia senza che i genitori se ne rendessero conto o avessero il tempo di portarla in ospedale. Ci furono anche degli articoli sui giornali su questa piccola epidemia.

Una volta che me la portarono via, mi resi finalmente conto che stavo per perderla. Compresi che la sua vita era appesa a un filo. Ero disperata, anche se all’esterno non lasciavo trasparire niente.

Rimase in quel reparto, dove non ho potuto mai vederla, ben 4 giorni. Il momento più tragico fu il mattino del primo giorno, quando la caposala, con una crudeltà di cui sono sicura non si rese conto, mi diede in mano gli abitini e il pellicciotto della bambina, chiedendomi:

  • “Avete solo questa bambina?”

Capii che l’avrei persa, che avevo poche speranze e che tra poco il buio sarebbe calato nella mia vita. La mia Roberta sarebbe volata via in cielo, rapita da un essere malvagio.

La degenza in terapia intensiva durò ancora 3 giorni che io passai quasi tutti in corridoio aspettando notizie di Roberta, sempre con l’oscuro timore nel cuore che una di quelle porte si forse aperta e qualcuno mi avrebbe data una brutta notizia.

Mio marito, i miei parenti e gli amici mi dicevano spesso di andare qualche notte a casa a riposarmi, a lavarmi, ma io non avevo l’intenzione di lasciare quel corridoio. In quel periodo, feci una doccia ogni quattro giorni.

Con me, in penosa attesa, c’era un’altra ragazza che aveva anche lei il proprio figlio ricoverato lì. Ci facevamo coraggio a vicenda, anche se talvolta la disperazione si impossessava di entrambe.

Il momento più tragico era al mattino presto, quando portavano dentro le piccole bare bianche in cui riporre i bambini che erano morti durante la notte. Ogni volta il mio cuore sembrava fermarsi, ma un’infermiera che lavorava lì e mi conosceva bene, apriva la porta e faceva cenno di no con la testa.

Allora tiravo un sospiro di sollievo. Roberta ce l’aveva fatta anche quella notte. Anche se non ebbi mai la cattiva notizia, quella scena era comunque terrificante. Vedere quelle bare bianche, a volte due, a volte 3, passare nel corridoio, faceva accapponare la pelle a tutti, figuratevi a noi mamme.

Per questo motivo le portavano dentro all’alba, quando non c’era nessuno, ma noi eravamo là già dalla notte.

Una mattina fredda e buia, cominciai a smaniare per la sete. Avevo la gola e la bocca secca da morire, mi incamminai per i corridoi dell’ospedale sperando di trovare qualche fontanina o un bar aperto.

Finalmente scorsi una fontanina a zampillo, la raggiunsi e bevvi avidamente. Mentre bevevo, alzando gli occhi, mi resi conto che era situata ai piedi di una Madonnina, dal cui collo pendevano degli oggettini legati a un nastrino. Osservandoli meglio mi accorsi che quegli oggettini erano tanti piccoli bambinelli in argento, sicuramente dei pegni per grazie ricevute.

Era la statua dell’immacolata Concezione, fissandola meglio mi sembrò che avesse gli occhi lucidi di pianto.

Mi inginocchiai ai suoi piedi e mi rivolsi a lei in preghiera:

“Vergine santa, perdonami se non ho chiamata mia figlia Immacolata come te, ma aiutami, non portarti via la mia stellina, lasciala a me.”

Poi mi feci il segno della croce, mi rialzai e andai. Appena tornata in reparto ebbi la bella notizia: Roberta aveva superato la fase critica, ormai stava quasi bene; infatti neanche dieci minuti dopo la riportarono in reparto.

Ringraziai la Madonna per questo. Chiamai mio marito e gli raccontai tutto quello che era successo. Lo pregai di comprare un bambinello d’argento appeso a un nastrino, da mettere al collo della Madonnina che ci aveva aiutato.

Trascorremmo altri 12 giorni in quell’ospedale. Andò tutto bene, solo una volta ebbe la febbre, poi i medici ci dissero che potevamo andare a casa. Prima di andare io, mio marito e Roberta siamo andati a salutare la Madonnina che ci aveva aiutato. Le abbiamo messo al collo il nastrino con il bambinello Gesù in argento, per ringraziarla e per pregare di far stare bene anche tutti gli altri bambini dell’ospedale.

Roberta ora ha quasi 23 anni ed è una ragazza bellissima. Si è diplomata da odontotecnico e già lavora in uno studio dentistico. È fidanzata da 4 anni con un bel ragazzo, tra poco si sposerà e avrò così la gioia di diventare nonna.

Ormai ho dimenticato i tempi bui in cui ho temuto di perderla, ma una domanda ha sempre continuato a frullarmi nella testa: chi era quella donna in chiesa vestita di blu che mi aveva avvisata?

Benché l’avessi cercata in tutti i reparti dell’ospedale Santobono nei giorni in cui mia figlia era ricoverata, non sono riuscita mai a incon

trarla. Se davvero lavorava lì, come aveva detto lei, prima o poi avrei dovuto incrociarla. Ho chiesto notizie a medici, infermieri, inservienti, pazienti ecc, ma nessuno conosceva una donna che corrispondesse alla descrizione della signora che avevo visto in chiesa.

Sono tornata più volte anche nella chiesa dove l’avevo incontrata, ma neanche qui sono riuscita a rivederla. Ne ho parlato con varie persone, la domenica dopo le funzioni, ma nessuno ha saputo darmi sia pure una informazione utile.

Era un forse angelo?

Io mi sono convinta di sì perché lei non era lì per qualcuno o per fare da madrina a un bambino, era da sola. Che ci faceva alle prove di una festa battesimale una signora in blu che aveva l’aria di un’infermiera? Sono sicura che non conoscesse nessuno.

Oggi, ripensandola, non posso che esserle grata. Se lei non mi avesse messo in allarme, avrei notato in mia figlia i sintomi della malattia?

Quasi sicuramente non ci avrei fatto caso o avrei preso la cosa sotto gamba e avrei ricoverato mia figlia quando ormai era troppo tardi.

Io, ne sono convinta, un giorno un angelo mi ha voluto aiutare perché mi amava e perché amava mia figlia. Ha scritto bene lei: “Nessuno di noi è mai solo.”

Russo Adele _ Napoli.

UN PROFUMO DI ROSE

Desidero raccontare la mia storia perché serva a dare un po’ di speranza alle altre persone che soffrono. Accusavo dei forti dolori alla schiena. Mi rivolsi a un medico che mi fece fare vari accertamenti da cui risultò che era affetta da ernia del disco.

Dato che non ho molta fiducia nei medici siciliani, per essere più sicura sono andata da mia figlia che abitava in provincia di Roma. Qui mi sono fatta visitare da uno specialista del ramo, che ha confermato un’ernia paralizzante da operare urgentemente, perché rischiavo di rimanere paralizzata, su una carrozzella.

Qualche giorno seguente ero ricoverata al C.T.O. di Roma, dove, dopo aver fatto altri accertamenti, i medici mi fissarono l’operazione per il lunedì successivo. Ritornai a casa per alcuni giorni, in attesa di rientrare in ospedale.

Nel frattempo sono successi strani episodi. La sera sentivo odore di incenso e di fiori. Una mattina, poi, quando mi svegliai mi accorsi che la mano profumava di rose. Odorai le lenzuola, avevano la stessa fragranza. Come poteva essere, se non avevo usato nessun profumo?

Tre giorni prima del ricovero io e mia figlia andammo a pregare la Madonna della rivelazione che a Roma ha fatto tantissimi miracoli.

Due giorni prima dell’operazione ero in bagno. Distrattamente feci cadere a terra il barattolo del borotalco. Senza pensarci mi chino e lo raccolgo tranquillamente, senza alcun sforzo.

Sul momento non ci faccio caso, ma una volta raddrizzata, sono rimasta stupita e impressionata.

Come poteva essere? Come ero riuscita a chinarmi, se erano sei mesi che non riuscivo ad abbassarmi minimamente?

Le calze me le doveva mettere mia figlia. Come poteva, una che aveva dormito per mesi su una poltrona e che camminava trascinando la gamba, essersi chinata fino a toccare terra con le mani?

Chiamai mia figlia, ma non mi volle credere. Allora volutamente feci cadere di nuovo il barattolo del borotalco e mi chinai a raccoglierlo senza nessuno sforzo.

Mia figlia gridò al miracolo, ma per il momento, stabilimmo di tacere. Può darsi che l’indomani sarebbe tornato tutto come prima.

Ma il giorno dopo non cambiò niente, potevo chinarmi senza sforzo. Mia figlia prese la macchina e mi accompagnò in ospedale. I medici quando seppero l’accaduto vollero visitarmi subito.

Rimasero scossi: l’ernia non c’era più, ero guarita.

Qualcuno osò supporre che non l’avessi mai avuta. Ma i medici che mi avevano visitata la prima volta, confermarono che c’era e mostrarono la prenotazione per l’operazione. Anche i dottori parlarono di miracolo.

Tornai a casa felice. Era il mese di maggio e io credo che sia stato un angelo mandato dalla Madonna a farmi guarire.

Da allora non mi stanco mai di andare, quando posso, in chiesa per ringraziarla di quanto ha fatto per me.

UN ANGELO NELLA NOTTE

Mi chiamo Sara e le scrivo per raccontarle la mia storia di un’incontro celeste.

Ero ancora molto giovane, circa 21 anni, quando incontrai un ragazzo di cui mi innamorai perdutamente. L’avevo conosciuto al mare, in un piccolo paese della provincia di Salerno, sulla costiera Cilentana. Ero un ragazzo nordafricano, e precisamente un tunisino, che lavorava in agricoltura e precisamente coltivava i fiori sotto le serre.

Lo conobbi tramite una mia amica, che non vedo più da anni.

Frequentai questo ragazzo per molti mesi, poi ci fidanzammo. Mi sembrava tanto una brava persona, buona, laboriosa, onesta, ma feci presto a ricredermi.

All’inizio sembravano tutte rose e fiori, promise anche di sposarmi. Avremmo lavorato tutti e due, anche se non navigavamo certo nell’oro (anche la mia famiglia era povera). Ci dicevamo che Dio ci avrebbe aiutato perché non facevamo niente di male.

Mi lasciai ingannare dalle sue parole e cedetti. La mia prima esperienza fu molto dolorosa, non ebbe quel garbo e quella delicatezza

che una donna si aspetta da un uomo. Fu brusco e brutale e persi anche del sangue. Neanche le volte successive fu molto delicato, ma andò senz’altro meglio. Mi dicevo che col tempo avremmo trovato anche in questo campo quell’affiatamento che avevamo nelle altre cose, ma mi sbagliavo.

Incominciò a cambiare molto con il carattere. Raggiunto il suo scopo, ogni giorno diventava sempre più sgarbato e villano. Io ci soffrivo, ma lo perdonavo sempre. È proprio vero che l’amore rende ciechi.

I giorni passavano e la sua crudeltà aumentava giorno per giorno, nonostante la sua giovane età. Mi mortificava, mi umiliava, mi diceva che ero una cicciona, che le altre erano meglio di me, che ero inutile … nonostante ciò, io continuavo ad amarlo, forse per troppa ingenuità.

Un giorno che ero più nervosa, l’ho affrontato e gli ho chiesto di dirmi sinceramente perché si comportava così. Lui dopo mille resistenze ha confessato che mi considerava una poco di buono, perché gli avevo ceduto. Non avrei dovuto assolutamente avere rapporti sessuali con lui e che le donne musulmane sono diverse, sono serie, non permettono certe cose se non si è sposati. In parole povere, secondo lui le donne italiane erano tutte puttane, perché erano troppo libere.

Mi è crollato il mondo addosso, non solo gli aveva dato tutta me stessa, la mia innocenza, mi disprezzava anche. Capii che questi uomini provenienti dal Nord Africa hanno una mentalità maschilista, contorta, complessa. Cercano in tutti i modi di circuirti, di sedurti, ma quando hanno raggiunto il loro scopo, ti disprezzano, perché gli hai ceduto e per questo per loro sei poco più di una prostituta.

Ma se io l’avevo fatto solo con lui! Se mi ero concessa solo perché ero sicura che sarebbe diventato mio marito!

Niente, per lui avevo sbagliato e non esisteva penitenza abbastanza severa. Un avviso a tutte le donne, se vi capita di innamorarvi di un nord africano non concedetevi prima del matrimonio, sareste considerata una poco di buono. È la loro mentalità.

Ma tornando al mio caso, nonostante tutto io l’amavo e continuavo a uscire con lui anche se diventava ogni giorno sempre più villano.

Un giorno è arrivato a dirmi che era andato a letto con una mia amica che io non vedevo da molto tempo. Queste parole mi distrussero, non solo mi insultava, a volte mi picchiava e mi disprezzava, ora mi tradiva anche.

Lo affrontai, ma reagì in modo ancora più crudele: mi urlò in faccia che per lui ero solo una scopata.

Lo piantai così come mi trovavo in mezzo alla strada e corsi a casa piangendo. Ero disperata. Per fortuna mia madre era uscita e perciò nessuno fece caso a me. Corsi nella mia stanza dove, sul letto, sfogai la mia rabbia piangendo. Decisi che non l’avrei visto più, lo odiavo.

Ero distrutta, delusa, amareggiata, mi sentivo sola, avevo perso l’unica persona che amavo veramente.

La cosa purtroppo non finì lì. Lui, anche dopo la nostra rottura, continuò a telefonarmi insultandomi con aggettivi che non oso neanche ripetere. Io ero prostata, umiliata, a quelle parole piangevo solo, non riuscivo a reagire. Ma lui per nulla impietosito, mi scherniva, mi derideva. Arrivava persino a chiamarmi prostituta, puttana.

Ogni giorno era sempre peggio … un bastardo. In breve caddi in una cupa depressione.

Speravo che col tempo mi avrebbe lasciato stare, ma diradò soltanto le telefonate. Ogni tanto mi chiamava, di solito di notte, per insultarmi. Io stavo sempre più male, ero incapace di reagire, piangevo solo. Una volta mi venne anche la febbre.

Ad un certo punto nella mia mente sconvolta si incominciò ad affacciare il pensiero di farla finita. La vedevo come l’unica possibilità a sottrarmi a quel tormento.

Mia madre, finalmente, si accorse di tutto e mi costrinse a confidarmi con lei e ciò mi salvò la vita.

Per prima cosa, mi sequestrò il cellulare. Appena lui chiamò, lo minacciò: se avesse osato chiamarmi o avvicinarmi per strada anche solo per chiedere un’informazione, lo avrebbe denunziato alla polizia.

Finì almeno il calvario delle sue telefonate, infatti da allora non telefonò più. I problemi, però, non erano terminati.

Era vero, non mi tormentava più con i suoi insulti, ma stavo male lo stesso. Ora il problema era uscire dal nero baratro in cui lui mi aveva spinto, dalla cupa depressione che mi rendeva un autonoma senza più voglia di fare niente e di vivere. Un essere inutile che andava alla deriva per il mondo.

Una notte avevo un po’ di febbre che mi faceva sudare e non riuscivo a dormire, sul tardi caddi in un dormiveglia. Anche se lui mi aveva trattato male, se si era comportato come un villano, mi mancava. Lo amavo ancora e lo desideravo più di ogni altra cosa al mondo.

Non potevo vivere con lui, ma nemmeno senza di lui, così decisi di morire. Mi sarei buttata giù dal balcone.

Mi alzai dal letto, la testa mi scoppiava. Non so se in quel momento volevo farmi solo un giro per la casa, dato che faceva caldo, o volevo mettere in atto il mio folle proposito di suicido, ma pensieri neri attraversavano la mia mente e sono sicura che, se nessuno mi avesse fermata, mi sarei lanciata nel vuoto. Sarebbe durato solo un attimo, giù da quella ringhiera e in un minuto sarebbe finito tutto.

Mi sedetti sul bordo del letto a cercare le ciabatte, quando qualcosa di insolito attrasse la mia attenzione. Mi girai e vidi alla mia destra, ai piedi del letto, un bambino bellissimo seduto, come in attesa di qualcuno. Non aveva l’aria felice, sembrava piuttosto preoccupato, con la gamba tirata verso il petto.

Era una creatura fatta di luce azzurra con due immense ali spiegate dietro le spalle.

Mi guardò e mi sorrise, senza che aprisse la bocca sentii le sue uniche tre parole:

  • Sarai ancora felice!

Io non so chi disse quelle parole, perché le sue labbra non si mossero, ma le sentii. Lo fissai stupita ancora per un istante, poi, vinta da una stanchezza irresistibile, mi rilassai e mi distesi di nuovo sul letto . In un attimo si fece tutto buio e caddi in un sonno pesantissimo.

La mattina dopo mi svegliai tardi, non ricordavo niente, ma avevo la sensazione come se un incubo fosse finito. Mi sentivo rinata senza sapere perché, poi, a poco a poco, mi ritornò nella mente quell’angelo bellissimo che avevo visto ai piedi del mio letto. Mi toccai il viso, ero caldo; sembravo una convalescente, ma la cosa più importante è che sentivo una grande pace nel cuore e non ero più sola e infelice.

Si aprì la porta era mia madre: l’abbracciai. Tutta felice, come inebriata da una luce interiore, le raccontai tutto. Mi abbracciò di nuovo tutta contenta, come risollevata.

Lui, il mio angelo, non aveva detto niente, ma avevo capito il senso di quelle due parole: “Sarai ancora felice!”

Volevano dire una sola cosa che non dovevo pensare a morire, che non dovevo fossilizzarmi su quell’esperienza negativa che mi era successa, che la vita continuava e che un giorno avrei incontrato qualcuno che mi avrebbe resa veramente felice.

Con quella certezza nel cuore, ripresi a vivere, a sperare e ad affrontare la vita con entusiasmo. Ero giovane e avevo una vita davanti, non mi dovevo abbattere, non dovevo pensare al suicidio, perché un giorno sarei stata felice. Me lo aveva detto un angelo.

Fu una svolta nella mia vita, da quella notte mi dimenticai a poco alla volta di lui, del tunisino. Dopo di allora, ogni volta che incontro uno di questi nordafricani li tengo a distanza, non ho mai più voluto fare amicizia con uno di loro. La pensano troppo diversamente da noi, hanno una cultura opposta alla nostra, forse sono diventata razzista, ma io non permetterei loro nemmeno di venire in Italia. Se servono lavoratori stranieri si possono prendere ucraini, bulgari, romeni, polacchi, indiani o dei paesi del sud America, non questa gente che ci disprezza. Sicuramente ci sono anche quelli buoni, ma io … non voglio averci più a che fare.

Non so se ragiono bene, ma non voglio cambiare. Ho sofferto troppo.

Passò il tempo che è una grande medicina. A poco a poco l’ho dimenticato, le ferite si sono rimarginate, la vita mi ha ripreso nei suoi ingranaggi e sono tornata quella di sempre: un ragazza semplice e felice, anche se talvolta un ricordo mi adombra il viso. È un istante, poi penso al mio angelo e tutto torna come prima.

Un giorno, poi, avvenne l’evento in cui avevo sempre sperato segretamente in cuor mio. Conobbi un altro uomo, questa volta italiano, di cui mi innamorai perdutamente. Sono tornata ad essere felice come mi aveva predetto quell’angelo.

Egli si chiama Gianni, mi ama e mi rispetta e contiamo di sposarci l’anno prossimo. Forse non sono ancora abbastanza grande per il grande passo (ho infatti solo 25 anni), ma sono pronta a giurargli amore di fronte al signore e ad amarlo per sempre.

Se quel giorno un angelo non mi avesse fermata e non mi avesse dato la migliore arma per affrontare la vita: la speranza, ora sarei sotto una fredda zolla di terra, in un cimitero. E questo non lo potrò mai dimenticare. Un giorno avrò dei figli e potrò parlare loro di questo mio amore per queste creature celesti, se fossi morta ci sarebbe stato solo il buio delle tenebre, perciò, voglio chiamare Angelo o Angela il mio primo figlio.

A tutte le persone che soffrono, che si sentono afflitte, che sono così disperate da desiderare di farla finita, dico:

Guardatevi sulla vostra destra, c’è un meraviglioso essere alato che vi ama. Non esitate a rivolgervi a lui, vi darà la speranza e la forza per continuare a vivere. E a tutti ripeto lo stesso messaggio che mi diede “lui”: “Non disperatevi mai, un giorno sarete di nuovo felici”.

DUE MACCHINE BIANCHE

Mi chiamo Katia e ho 33 anni. Ho una bambina di 10 anni e vivo in una piccola cittadina della provincia di Roma. Le scrivo per raccontare brevemente, il fatto strano che mi è accaduto un po’ di tempo fa.

Circa due anni fa, sognavo spesso un essere malvagio che mi diceva delle cose brutte, era cattivo e si divertiva a torturarmi in tutti i modi. Questi sogni durarono per alcuni mesi, fino a quando una notte, questo essere malvagio mi disse che lo avrei visto veramente e che mi avrebbe fatto del male.

Mi svegliai in preda a una crisi d’ansia. Seduta sul letto tremavo come una foglia per la paura.

Rendendoti, poi, conto che si era trattato

solo di un incubo, ringraziai Dio per questo.

Cercai di calmarmi, mi dissi che era solo un brutto sogno e che era impossibile che quest’essere malvagio lasciasse la sua dimensione per sconfinare nella mia vita. Mi alzai, feci un giro della casa, perché avevo letto in un libro che se si vuole interrompere gli incubi, bisogna

spezzarli con qualche attività cosciente. Se non l’avessi fatto non era difficile che il sogno sarebbe continuato.

Dopo circa 10 minuti tornai a letto, per fortuna quella notte non feci più sogni cattivi. Passò qualche giorno e i ritmi della giornata mi fecero dimenticare il pensiero di quel demone che mi terrorizzava, anche se talvolta mi chiedevo se un sogno potesse avverarsi. Non ci pensai confortata dall’idea che gli incubi non si possono mai materializzare.

Passo molto tempo, forse più di anno. Arrivò l’estate. Quell’anno non avevo ferie, così due o tre volte la settimana raggiungevo mia figlia che stava in vacanza con mia madre in un paese a circa 70 km dalla città in cui risiedevo. La mattina seguente mi svegliai presto per andare a trovarla. Senza capirne il motivo era ansiosa e nervosa.

Percorrevo la strada, come tante volte ero solita fare, sembrava tutto normale, ma a un certo punto vidi dietro di me una macchina nera, minacciosa, come quella che avevo visto nei sogni.

  • Possibile? – Mi chiesi.

Pensai che si trattasse di un caso e che le mie fossero solo paure immaginarie. Istintivamente accelerai, ma la macchina scura si faceva sempre più vicina. Sembrava che volesse tamponarmi.

Cercai di sfuggirgli, ma mi seguiva ogni cosa facessi. Una fredda paura incominciò a pervadermi. Non sapevo chi fosse eppure ero sicura che fosse lui, l’uomo cattivo che avevo sognato tante notti.

Come trovai una strada laterale svoltai, ma con mia enorme sorpresa la macchina mi seguì. Pensai di chiamare la polizia, ma andavo troppo forte per poter lasciare il volante e prendere il telefonino. Feci un’altra svolta sulla destra, ma anche questa volta la macchina mi seguì.

Allora ce l’aveva proprio come me? Aveva intenzione di tamponarmi o di buttarmi fuori strada? Lo so che certe cose si vedono solo nei film eppure, non ci potevo credere, ma stava succedendo proprio a me.

Mi vidi perduta. A questo punto cominciai a pregare:

“Mio Dio, aiutami! Io non posso niente contro di lui!”

Cercai di sfuggirgli accelerando, ma mi era sempre dietro. Per quanto mi sforzassi, non riuscivo a distanziarlo!

Incominciai a pregare: “Angelo custode mio, aiutami!”

Mi vidi perduta, prima o poi mi avrebbe raggiunta e spinta fuori strada o mi avrebbe fatto fare un incidente per l’alta velocità. In tutte e due i casi nessuno avrebbe saputo mai niente di “lui”.

Poi all’improvviso, senza un perché mi sentii sollevata. Qualcosa aveva cambiato il mio stato d’animo interiore ma non ne capivo il perché.

Guardai di nuovo nello specchietto retrovisore per controllare quanto fosse lontano e fu allora che scorsi due macchine bianche che stavano dietro di lui. Chi erano?

Questo fatto mi rincuorò tantissimo. Ero sicuro che erano lì per aiutarmi. Li tenni d’occhio per un po’ per vedere che sarebbe successo, ma poi, mi dissi di non guardare sempre dietro e di stare attenta, altrimenti prima o poi sarei finita fuori strada. Andavo a forte velocità e una qualsiasi distrazione mi poteva essere fatale. Per fortuna non avevo nessuno davanti, la strada era, infatti, quasi deserta.

A un certo punto sbirciai di nuovo nello specchietto. Vidi che una delle due macchine bianche aveva sorpassato quella scura, dell’essere malvagio, e si era messa tra la mia e la sua, come a proteggermi.

Mi tranquillizzai perché la distanza tra me e le macchine dietro, in

particolare tra me e quella nera, incominciava ad aumentare. La macchina nera, infatti, imbottigliata fra le due bianche, fu costretta a rallentare. Tutte e tre si allontanavano sempre di più.

Dopo neanche un minuto guardai di nuovo nello specchietto: non c’era più traccia dell’auto scura e tanto meno delle due auto bianche.

Emanai un sospiro di sollievo, l’avevo scampata bella. Rallentai sollevata e ripresi la strada per andare a trovare mia figlia.

Una volta che mi fui calmata e il viaggio procedeva bene, non so perché ma incominciai a pensare che forse mi ero immaginata tutto. La storia della macchina nera e delle due bianche, mi sembrava così assurda, anzi ridicola, che avevo paura persino di ammettere con me stessa che fosse successa veramente. Erano roba da film giallo, al massimo materiale per una leggenda metropolitana. Avrei mai potuto raccontarla senza essere presa in giro? Non mi avrebbero guardata come una visionaria?

La tensione nervosa mi aveva giocato un brutto scherzo?

Per un po’ di tempo non ci pensai, poi arrivata a casa ho riflettuto meglio sull’accaduto. Non era stata un’allucinazione, ne ero certa, avevo davvero visto quelle auto e vissuto quei momenti.

La prova più evidente che avevo vissuto quell’esperienza era che un’allucinazione dura solo pochi secondi, invece quella scena è durata molto, forse 20 minuti.

E poi non ero in uno stato di coscienza alterato o stressata, quando è successo ero perfettamente calma e tranquilla.

Oggi più che mai, sono convinta che il Signore mi ha aiutato, mandandomi due angeli, perché questo erano secondo me, a proteggermi con delle auto bianche.

La domenica quando vado a messa, non mi dimentico mai di ringraziarlo per questo.

Katia _ Roma

LA NOTTE

Amo la notte

che bacia i tetti delle case.

Ne amo il suo

camminare pallido e

assorto

tra le vie addormentate

e la città che fa le fusa.

Amo le fioche

luci dei lampioni

e lo scivolare

delle auto nelle strade deserte.

Ne amo i misteri,

le frasi sussurrate nel buio,

o il pianto di un bambino

per un incubo che l’ha svegliato.

Amo …

inseguire vecchie

fantasie di amori

che non danno più luce

e le storie passate

assopite per sempre.

Amo, lo strimpellare

di un artista

nella notte

su un vecchio pianoforte

e le note sdolcinate

di un poeta

insonne innamorato …

Amo, la notte,

quella che si prepara in silenzio

con il pigiama a fiori

e le preghiere

per il buon Gesù;

e che con suo mantello nero,

di pace

ricopre ogni cosa

fino al mattino.

GLI ANGELI

nelle sacre scritture

Molti pensano agli angeli come a creature celesti frutto della fantasia di un fantasioso scrittore o a personaggi letterari come quelli delle fiabe, scaturiti dalla fervida fantasia popolare. È un grave errore credere una cosa simile, gli angeli esistono veramente e sono citati nella Bibbia ben 250 volte.

Chiunque crede nelle sacre scritture e nell’esistenza di un Dio potente e misericordioso, che ha mandato suo figlio sulla terra per redimere gli uomini, non può pensare che siano solo il frutto di immaginazione.

Non solo esistono, ma essi spesso hanno rivestito un ruolo importante nella storia sacra; ad esempio pochi sanno che fu un angelo a confortare Gesù quando sudò sangue sul Monte degli Ulivi, e meno ancora sanno che furono citati più volte dallo stesso Gesù (più avanti citiamo due passi del vangelo dove il Messia parla di queste meravigliose creature celesti).

Per farne capire la loro importanza riportiamo alcuni passi delle

sacre scritture dove sono menzionati.

Nella Genesi gli angeli sono citati più volte. La prima volta è a proposito della cacciata di Adamo ed Eva dal paradiso terrestre.

“Il Signore Dio lo scacciò dal giardino di Eden, perché lavorasse il suolo da dove era stato tratto. Scacciò l’uomo e pose ad oriente del giardino i cherubini e la fiamma della spada folgorante, per custodire la via dell’albero della vita”

Genesi 3 , 23

Sempre nella Genesi un angelo salva Lot e la sua famiglia dalla distruzione di Sodoma.

“I due angeli arrivarono a Sodoma sul far della sera, mentre Lot stava seduto alla porta di Sodoma. Non appena li ebbe visti, Lot si alzò, andò loro incontro e si prostrò con la faccia a terra. E disse: “Miei signori, venite in casa del vostro servo, vi passerete la notte, vi laverete i piedi e poi domani mattina, per tempo, ve ne andrete per la vostra strada”

Genesi 19, 1

Ancora nello stesso episodio:

“Quegli uomini dissero allora a Lot: “Chi hai ancora qui? Il genero, i tuoi figli, le tue figlie e quanti hai in città, falli uscire da questo luogo perché noi stiamo per distruggere questa città: il grido innalzato contro di loro davanti al Signore è grande e il Signore ci ha mandati a distruggerla”.

Più avanti gli angeli conducono Lot e i suoi familiari fuori

della città per salvarli da sicura morte.

“Lot indugiava, ma quei giovani presero per mano lui, sua moglie e le sue due figlie, per un grande atto di misericordia del Signore verso di lui, lo fece uscire e lo condussero fuori della città.

Dopo averli condotti fuori, uno di loro disse: “Fuggi, per la tua via. Non guardare indietro non fermatevi dentro la valle, fuggi sulle montagne, per non essere travolto!”

Genesi 19, versetto 1, 12 e 16.

Più avanti, nello stesso libro, il Signore manda un angelo a fermare Abramo ed impedire che uccida suo figlio Isacco.

“Proseguirono tutti e due insieme, così arrivarono al luogo che Dio gli aveva indicato: qui Abramo, costruì l’altare, collocò la legna, legò il figlio Isacco che depose sull’altare sopra la legna. Poi Abramo stese la mano e prese il coltello per immolare suo figlio.

Ma l’angelo del Signore lo chiamò dal cielo e gli disse: “Abramo Abramo!”

Rispose: “Eccomi. “

L’angelo disse “Non tendere la mano contro il ragazzo e non fargli alcun male! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato il suo figlio, il suo unico figlio”

Genesi 22, 10.

Sono citai anche nella visione celeste della scala di Jacob

“Giacobbe partì da Bersabea e si diresse verso Carran. Capitò così in un luogo, dove passò la notte, perché il sole era tramontato. Prese una pietra, se la pose come guanciale e si coricò in quello luogo. Fece un sogno: una scala poggiava sulla terra, mentre la sua cima raggiungeva il cielo; ed ecco gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa.”

Genesi 28, 12

Anche nel vangelo gli angeli sono citati varie volte e hanno un

ruolo importante persino nella vita di Gesù. Ad esempio, è proprio un angelo ad annunciare a Maria che da lei nascerà un figlio che sarà il Messia.

“Nel sesto mese, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, chiamata Giuseppe. La vergine si chiamava Maria.

Entrando da lei, disse: “Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te”

A queste parole ella rimase turbata e si domandava che senso avesse tale saluto.

L’angelo le disse: “Non temere, Maria, perché hai trovato una grazia presso Dio. Ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e chiamato figlio dell’altissimo: il Signore Dio gli darà il trono di Davide, suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine.

Allora Maria disse all’angelo: “Come possibile? Non conosco uomo”

Le rispose l’angelo: “Lo spirito santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo. Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato figlio di Dio.”

Luca 1, 26

Sono sempre gli angeli ad annunciare ai pastori che è nato il redentore.

“C’erano in quella regione alcuni pastori che vegliavano di notte

facendo la guardia al loro gregge. Un angelo del Signore si presentò davanti a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande spavento, ma l’angelo disse loro: “Non temete, ecco vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore. Questo per voi il segno, troverete un bambino avvolte in fasce, che giace in una mangiatoia.”

E subito apparve con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste che lodava Dio e diceva:

“Gloria a Dio nel più alto dei cieli

e pace in terra agli uomini che egli ama”.

Luca, 2 , 8.

È ancora un angelo ad avvisare S. Giuseppe, consigliandolo di fuggire in Egitto.

“Essi erano partiti, quando un angelo del Signore apparve in sogno e gli disse: “Alzati, prendi con te il bambino e sua madre e fuggi in Egitto, e resta là finché non ti avvertirò, perché Erode sta cercando il bambino per ucciderlo”.

Matteo 2 , 13

E fu sempre un angelo ad avvisarlo quando poteva tornare in Israele.

“Morto Erode, un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: “Alzati, prendi con te il bambino e sua madre e va nel paese d’Israele; perché son morti tutti coloro che insidiavano la vita del bambino.”

Matteo 2, 19.

È un angelo l’unico a sostenere Gesù durante la sua passione sul Monte degli Ulivi.

poi si allontanò da loro quasi a un tiro di sasso e inginocchiatosi, pregava: “Padre, se vuoi allontana da me, questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà!”

Gli apparve un angelo del cielo a confortarlo.

Luca 22, versetto 42 e 44

Anche la resurrezione di Gesù fu annunciata da un angelo.

“Passato il sabato, all’alba del primo giorno della settimana, Maria di Magdala e l’altra Maria andarono a visitare il sepolcro. Ed ecco che vi fu un gran terremoto: un angelo del Signore, scese dal cielo, si accostò, rotolò la pietra e si pose a sedere su di essa. Il suo aspetto era come la folgore il suo vestito bianco come la neve.

Per lo spavento che ebbero di lui le guardie tremarono tramortite. Ma l’angelo disse alle donne:

“Non abbiate paura, voi! So che cercate Gesù, il crocifisso. Non è qui. È risorto come aveva detto; venite a vedere il luogo dov’era deposto. Presto, andate a dire ai suoi discepoli: è risuscitato dai morti, e ora vi precede in Galilea; là, lo vedrete. Ecco, io vi ho detto.”

Matteo 28, da 1 a versetto 8

Gli angeli sono più volte citati nelle stesse parole di Gesù:

“Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà. Qual vantaggio, infatti, avrà l’uomo se guadagnerà il mondo intero, e poi perderà la sua anima? O che cosa l’uomo potrà dare in cambio della

propria anima? Poiché il Figlio dell’uomo verrà nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e renderà a ciascuno secondo le sue azioni. “

Matteo 16, 25

Sono citati anche nella parabola della dramma ritrovata:

“Quale donna, se ha dieci dramme e ne perde una, non accende la lucerna e spazza la casa e cerca attentamente finché non la ritrova? E dopo averla ritrovata, chiama le amiche e le vicine, dicendo: rallegratevi con me, perché ho ritrovato la dramma che avevo perduto.

Così vi dico, c’è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte”.

Luca, 15, 8

QUALCHE PAGINA LETTERARIA

A questo punto, come negli altri due libri, ho voluto inserire qualche pagina letteraria che fosse in sintonia con l’argomento ed avevo, a proposito … due brani bellissimi.

Il primo parla di un giovane che decide di donare la sua vita per gli altri. Non è fatto reale, ma mi sono inspirato a un mio amico, che tanti anni fa, partì come missionario in una terra lontana. Lo inserisco perché sia un invito ad aiutare gli altri, specialmente coloro che ne hanno bisogno.

Il secondo brano interpreta le inquietudini dei nostri tempi, tempi difficili e di smarrimento, non solo di crisi economica, ma anche crisi di valori e di spiritualità.

Ripeto, non sono storie vere, ma opere di fantasia, ma sono lo stesso belle e significative, nutrimento per lo spirito in un mondo dove sembra prevalere l’egoismo umano e la violenza.

UN MONDO D’AMORE

Me lo ricordo ancora come fosse ieri: era giovane, alto e bello, con i capelli leggermente lunghi e uno sguardo profondo e sincero. Partì, aveva con sé uno zaino, una chitarra e voleva cambiare il mondo. Richiamava vagamente l’aspetto di un intellettuale, ma non aveva sul viso l’orgoglio della cultura; il suo sguardo era umile e mite.

Parlava e mentre parlava aveva sempre un sorriso franco e leale sulle labbra. Era sempre sereno e calmo e non ricordo mai che si sia arrabbiato qualche volta.

Si esprimeva in modo semplice avendo sempre cura di essere stato chiaro o di ascoltare abbastanza l’altro.

Mi disse prima di partire: “Se tutti i ragazzi del mondo si dessero la mano, formerebbero un gran girotondo intorno al mondo e cesserebbe qualsiasi divisione fra le nazioni.

Se tutti gli sguardi truci, d’odio, si tramutassero in un sorriso, in un momento tutto il mondo scoppierebbe in un enorme risata e tante divisioni, tante guerre, tanti rancori non avrebbero più motivo di esistere.

Sai che cos’è l’odio? È un terribile bisogno di essere amati. Tu te la senti di restare a casa, io no. Io voglio cominciare una crociata per il mondo, una crociata d’amore.

Voglio conoscere, incontrare tutti, perché un mondo senza uno dei miei fratelli, sarebbe un mondo sbagliato. Non m’importa, se la gente mi deriderà, se non mi capiranno o mi prenderanno per pazzo. Non m’importa neanche se tutte le persone a cui donerò un sorriso, non ricambieranno il mio amore, perché io non amo per ottenere qualcosa, io amo perché vedo in ogni persona che incontro un fratello.

E non m’importa neanche se la pioggia mi bagnerà, se a volte la febbre mi costringerà a letto per alcuni giorni o se la morte un giorno mi fermerà per sempre, perché io continuerò camminare ancora, lo farò continuando ad esistere nel ricordo di coloro che avrò amato”.

Era giovane, bello e forte, eppure partì, un giorno di primavera, per un continente lontano, verso gente sconosciuta, ma che egli già amava.

Mi scrisse circa un anno dopo dal Brasile, dove lavorava in una comunità che si occupava dei ninhos de rua, bambini abbandonati dai genitori che vivevano per strada come piccoli animali selvaggi.

La lettera non conteneva alcun foglio scritto, solo una foto in cui era ritratto col suo immenso sorriso insieme a tanti bambini, vestiti in modo molto modesto, ma dignitoso. Dietro la foto c’era una sola frase: “Hai visto quanti figli mi ritrovo, senza essermi mai sposato?”

Fui certo che era felice, perché aveva trovato la sua strada, il posto che Dio gli aveva assegnato in questo mondo, e nessuno può esserlo mai, se non trova il suo.

Mi manca il suono della sua chitarra con cui aveva allietato tante nostre serate, il suo sguardo vivo e sincero, l’eco delle sue parole, con cui tante volte aveva rincuorato il mio animo scettico e demoralizzato.

Mi rimane la sua immagine magra e alta, il sorriso con cui sempre lo ricordo … ma forse ha continuato in questi anni a vivere in me, come diceva lui, perché sento che anch’io, farò come lui.

LA CITTA’ PERDUTA

Gli ultimi ideali son caduti ad uno ad uno e questa città, freddo intrigo di strade e di piazze, di viali e di case, formicaio all’insegna della fretta e dell’indifferenza, dell’egoismo e dell’avidità umana, piena di gente con i ventri obesi e i cuori a forma di salvadanaio, mio Dio, vive ormai solo nella sua vuota esteriorità!

Cristo è morto, è morto nel cuore degli uomini e nemmeno sono riusciti a resuscitarlo i preti con i loro riti esteriori, con la loro dottrina medievale, con la loro mentalità chiusa e bigotta.

Neppure nelle chiese è riuscito a sopravvivere. Ha disdegnato la lunga litania di Ave Marie delle vecchie bigotte nella messa vespertina desiderose solo di un posto in paradiso. Ha fuggito l’omelia del vecchio prete che da cento anni parla d’amore, ma di un amore vuoto. Ha evitato anche i marmi dell’ultimo altare, vi si celebravano messe per i defunti ed i preti vi si avvicendavano frettolosi intenti a salvare anime o forse a riempire le casse delle parrocchie.

Anche la grassa e macilenta suora che vendeva santini sotto il porticato della chiesa di S. Maria ha chiuso tutto con grossi catenacci d’ottone ed è andata via, col sopraggiungere della notte.

È rimasta solo la città deserta. La città, dove la gente si pigia negli

autobus, bisticcia dalle auto, s’incontra in fretta per poi fuggirsi.

Il vento del Nord la spazza, i cuori si sono fatti di pietra e non si leva nemmeno un grido di dolore, eppure Cristo è morto. Ha abbandonato le mura di Sodoma e già si teme il suono delle trombe dalle torri o eserciti celesti che la distruggano nel fuoco e nelle fiamme.

Cristo è morto. L’ha ucciso l’egoismo che ci portiamo nel petto, l’ipocrisia con cui celiamo ogni cosa dietro un sorriso, le belle intenzioni delle nostre bocche mendaci sempre pronte a facili promesse … la cattiveria dei nostri cuori, capaci per denaro di vendersi anche l’anima.

Non c’è più amore e la terra è deserta. Il vento gelido dell’inverno, giunto anzitempo alle porte di pietra, spazza via le strade che furono la gloria dell’antica città.

Il Tevere, imprigionato tra due altissime sponde di cemento, scorre lento con le sue acque putride e stagnanti. Sta morendo soffocato dagli scarichi e dalle fogne e dai rifiuti che qua e là, galleggiano mestamente, quasi danzando, mentre vanno verso il mare. Solo qualche vecchio ricorda i pesci che nuotavano nelle sue acque o le anitre o i volatili che popolavano le sue sponde verdi e rigogliose. I giovani lo hanno visto sempre così, imprigionato tra due alte sponde di cemento, vecchio ed agonizzante, senza più voglia di vivere e perciò nessuno se ne importa.

Tra non molto, non ci sarà nemmeno chi lo ricorderà giovane e biondo com’era tanti anni fa e così ne perirà anche il ricordo. L’orologio del tempo ha incominciato a scandire con i suoi ritmi incessanti l’avvicinarsi di tempi bui, che non riservano più niente di buono, solo play station, DVD e computer sempre più potenti.

A Fontana di Trevi sono rimasti ancora dei turisti, molti lanciano la monetina, altri fotografano le solite acque che fanno il giro risucchia

te da potenti motori. I suoi scalini sono consunti, le sue statue hanno il volto macchiato di smog, la fontana è stanca di essere calpestata da migliaia di gente o da venditori extracomunitari che assillano i visitatori con le loro cianfrusaglie di plastica. Negli angoli, si ammassano rifiuti galleggianti che mossi dal tremolio delle acque si muovono irrequieti come soldati di un esercito fantasma.

A Campo dei Fiori giovani dalle teste rapate, sporchi e con giubbotti di pelle, parlano di amore e di pace, di politica e di solidarietà, ma poi affondano nella droga. I loro sguardi sono spenti, il loro aspetto è trasandato, negli angoli nascosti alla vista si ammucchiano gli aghi traditori. Partono per viaggi lontani, credono di vivere liberi, ma non c’è peggiore schiavitù della droga. Vivono nel corpo e il loro unico obiettivo è una bustina che è tutto il loro mondo. I loro sguardi sono apatici e indifferenti, i loro gesti lenti e senza convinzione, non hanno mete e tutto la loro felicità sta nel procurarsi la dose per un altro giorno.

A piazza Venezia, si è tenuto un comizio. Giovani gagliardi venuti da tutta Italia si sono riuniti e hanno parlato di patria e di onore. È vero erano pochi, ma sognavano ancora folle osannanti, parate militari, bandiere che sventolavano irrequiete e medaglie di vittorie ormai lontane, ostentate con orgoglio.

La sete di fama ha spento nei loro cuori l’amore e Dio è fuggito dai loro petti irsuti, ostentati con fiero patriottismo. Sembravano alti come montagne, ma erano piccoli e infantili persi dietro ai loro sogni di gloria a cui, per fortuna, nessuno più crede.

Prostitute straniere a centinaia, sulla Cristoforo Colombo o nelle periferie degradate, con le loro gonne cortissime, seminude vendono amore a uomini nascosti dai vetri appannati delle auto. Il sesso, insieme al denaro, è rimasto uno degli idoli di pietra di questa società che va morendo.

Ormai in nome del dio denaro, l’unico dio rimasto a governare la città, si commette ogni tipo di crimine, dalla corruzione al peculato, e le truffe e gli imbrogli sono all’ordine del giorno. Si approfitta persino degli anziani, delle vedove e talvolta dei bambini. La sera la gente, piena di paura, si barrica in casa e aspetta un altro giorno per poter tornare ad uscire o forse a vivere.

Ma tra poco suoneranno le trombe di Gerico, non resterà più niente di nessuno e del Dio denaro non si troverà più traccia.

Auto in fila ad affollati distributori, gli unici aperti della notte, aspettano di fare il pieno di benzina, ma il povero tende la mano denutrita dietro l’angolo. Chiede solo di vivere qualche giorno ancora.

Poco lontano, altre auto nuove e costose attendono frementi ad un semaforo rosso. I loro motori scalpitano, come cavalli alla partenza, ma non si vede nemmeno la gente dietro i vetri, chiusa come è agli altri.

Il Papa ha parlato, stamane, a piazza San Pietro, ma la sua finestra era troppo lontana e la sua voce non si è sentita. Il suo viso era così piccolo, che non gli si vedevano gli occhi e nessuno l’ha visto. Qualcuno ha detto che anche se avessero esposto fuori un quadro, nessuno se ne sarebbe accorto.

Ha parlato di amore e di povertà, di giustizia e di pace, ma poi è

tornato dentro e … non è cambiato niente. I ricchi e i turisti l’hanno applaudito a lungo, ma il povero aveva le mani intirizzite dalle lunghe notti passate all’addiaccio e perciò si è limitato a dargli uno sguardo indifferente.

I giornali portano l’eco di una guerra lontana che diventa, ogni giorno che passa, sempre più un massacro. Riportano foto di donne con le vesti lacere che fuggono con i bambini in braccio, di lunghe colonne di auto in fiamme, i cadaveri abbandonati nel fango e morte, morte dappertutto. Gli innocenti con i loro corpi ingombrano le strade e interi villaggi non sono altro che cenere e macerie.

A via del Corso hanno rapinato una banca e sono fuggiti con un gran stridio di gomme. È rimasta a terra solo una guardia giurata in un lago di sangue, l’ultimo baluardo contro il dilagare della violenza?

La gente ha sentito il crepitio delle armi ed è fuggita in preda al panico, ancora trema di paura e non si decide di uscire fuori, da dietro le colonne della Galleria Colonna dove si era nascosta.

A villa Doria è stata violentata una donna. L’hanno trovata tramortita a terra, con le vesti stracciate e la bocca sporca di sangue. Disperata, prima di cedere, aveva morso uno dei suoi assalitori. Le sue carni erano piene di lividi, la sua innocenza rubata dalla furia di quattro bestie. Non crederà mai più a nessun uomo, andrà alla deriva come

un animale marchiato, senza più forza e senza più sorriso.

Mio Dio! La violenza dilaga e la città è impotente, nemmeno le armi degli ultimi poliziotti rimasti a difendere la legge, la fermano. Che serve fermare i violenti se poi magistrati distratti e leggi permissive ne permettono il rilascio?

La bandiera dell’uomo ONU ancora sventola sul vecchio palazzo della FAO, è forse l’ultima speranza?

Non so, ma mio Dio, questa città muore e il tuo amore l’abbandona ed essa perisce lentamente, con le sue luci fioche che già si spengono nell’alba che sta per sorgere sui tetti delle case ancora avvolte nel mantello nero della notte.

Ogni uomo di buona volontà cerca disperatamente una luce, ma il timore che tutto finirà nel buio dell’egoismo è grande. Si sentirà ancora parlare dell’uomo o in tutti gli angoli dell’universo si dirà di lui che è un animale crudele, violento, egoista e sfruttatore?

Ritornerà ancora il tuo amore, Signore e potremo tornare sorridere come fu un tempo? O l’innocenza sarà perduta per sempre?

So che un giorno eserciti di angeli scenderanno sulla terra e scacceranno il violento e il cattivo, lo strozzino e lo sfruttatore, l’avido e il pervertito, ma in questo momento lo sconforto è grande e l’anima mia si è persa nelle strade di un mondo sempre più corrotto e malvagio.

Signore, torna ancora tra noi, abbiamo ancora tanto bisogno di te!

GIRAMONDO

Attraversai il mare,

mi sospinsi ovunque

mi portò il vento,

amai l’impazienza

che è nemica di ogni dove,

alzai eternamente la mia vela

al tempo

stancandomi presto d’ogni porto

e di ogni donna.

Avevo 16 anni

e 2 scarponi rotti,

quando lasciai il vecchio

paese, la casa, la mamma.

Era una notte chiara d’estate,

furtivo come un ladro

ancor ricordo il tremar delle stelle

per lo spavento di un tal passo.

Senza niente, partii,

portai la mia sola casa

sulle spalle, come unica compagna

la solitudine;

dormii ovunque

mi colse la notte

sotto il freddo

respiro delle stelle.

Mi guidò sempre l’avventura,

eterna amica

di ogni giramondo.

Ne girai di contrade, ne conobbi

di città, di porti, di strade, di campagne,

ne vidi di volti, di persone, di gente

di popoli di ogni razza,

di migliaia

di chilometri di strada,

come un film senza fine

e sempre con la stessa ansia,

impazienza di conoscere, di vedere

poi ….

una notte, sotto il cielo d’agosto

correndo tra una stella e l’altra

capii ….

che tutto il mondo

era come il mio paese;

ed ogni dove

è pieno delle stesse simili cose:

l’amore, il dolore, la morte, la speranza …

si ama e si soffre, si gioisce e si piange

si cerca e si prega

e in ogni petto

batte lo stesso identico cuore.

Tornai solo,

ramingo, così come ero partito,

trovai tutto lo stesso:

il vecchio paese,

la piazza, la fontana,

il bar, tra le solite

chiacchiere sportive o di donne.

Ripercorsi quelle vie strette,

quei muri di ciottoli,

cercai un vecchio amore,

un sospiro sempre rimasto

nel petto.

Nemmeno la mamma c’era più

ad aspettarmi sull’uscio.

Povera mamma … sola e senza un fiore,

in quel cimitero di lapidi sbiadite

e di lucertole che si arrostivano al sole!

Al parco, tra la piazza e il castello,

ritrovai le cose di sempre:

una panca, dell’ombra

e una fetta di cielo.

Restai lì, sdraiato con la pancia all’insù,

ad abbeverarmi d’infinito:

avevo ritrovato

il mio mondo,

le cose di sempre …

lasciate lungo la strada

TANTE, TANTISSIME LETTERE

In questi anni ho ricevuto tantissime lettere,

sono testimonianze preziose di quanto sia diffuso

l’amore per gli angeli e di quanto sia attiva la loro presenza

Egregio signor Gargione,

di chiamo Doriana M. e abito in un piccolo paese della provincia di Venezia. Ho ricevuto in regalo il suo libro sugli angeli, da una mia carissima amica e ho letto con molto piacere le testimonianze di queste persone che hanno avuto il grande piacere di incontrare uno di questi esseri così speciali che ci circondano.

Ciò ha spinta anche me a rendere noto un episodio che mi è accaduto alcuni anni fa, esattamente nell’anno 1998.

La mia mamma era morta da due giorni e il suo corpo giaceva nella bara in attesa dei funerali che per problemi di burocrazia si sono svolti ben tre giorni dopo la morte, avvenuta dopo una lunga agonia, essendo malata di cancro.

Il problema era questo, quand’era ancora in vita espresse il desi

derio a me e ai miei fratelli di essere tumulata accanto al papà, morto 10 anni prima. Era un desiderio legittimo, ma che costituiva un grosso problema perché al cimitero non c’erano più loculi liberi. Quando glielo riferimmo, ci rispose che non voleva assolutamente andare in un altro cimitero, ma voleva restare vicino al papà.

Stava male, perciò non demmo molta importanza alla cosa, infatti fino a quando fu in vita, non pensammo più a questo problema.

Purtroppo il giorno triste in cui lasciò questo mondo giunse presto e ci riunimmo per cercare di accontentare il suo ultimo desiderio. Mia sorella propose la cremazione come soluzione, così da poter sistemare la mamma nello stesso loculo con il suo amato sposo. Mi sembrò una buona idea e anche mio fratello si dichiarò d’accordo.

Andai in comune a farne richiesta, ma tornando a casa fui assalita da numerosi dubbi:

E se la mia mamma non desiderava essere cremata? Siamo cattolici e perciò non vediamo di buon occhio questa soluzione.

Quel pomeriggio mi inginocchiai vicino alla bara di mia madre e le chiesi se fosse contenta di essere cremata, nel caso contrario avrei ritirato la firma e tolto il consenso per la cremazione. Lo so, che non poteva parlare, ma a me bastava un segno qualsiasi.

Attesi a lungo e invano una sua risposta. Alla fine mi alzai, presi i miei bambini, che aspettavano fuori, nel corridoio con mia sorella e uscii. Salii in auto e mi diressi verso casa in silenzio.

Quel giorno anche i bambini erano tristi e silenziosi, così che nessuno di noi disse niente durante il viaggio. Quando arrivammo sul ponte del fiume Adige, che divideva in due il mio paese, mio figlio E., che allora aveva 12 anni, si mise a urlare.

Dallo spavento che presi stavo quasi per andare fuori strada. Le sue parole non erano molto chiare, perché continuava a gridare, ma mi sembrò di capire:

“Mamma un angelo, guarda un angelo lassù nel cielo!”

Poi anche mia figlia, che sedeva sul sediolino posteriore dell’auto, iniziò a gridare insieme al fratello.

Alzai gli occhi e guardai anch’io nella direzione indicatomi da mio figlio. Fu allora che lo vidi. Era un angelo grande, maestoso, fatto di nuvole. Mi accostai e rimasi a contemplarlo per qualche istante, sorpresa e nello stesso tempo commossa. Si poteva notare ogni minimo dettaglio, dai capelli con i lunghi riccioli d’oro che cadevano sulle spalle, alle pieghe del vestito. In quel momento capii che la mia mamma era in pace e anch’io mi sentii tale.

Il mio cuore era ricolmo d’amore e felice per aver avuto una testimonianza della presenza divina nella mia vita. Era bello sapere che gli angeli mi erano vicini in quel momento così triste.

Mentre ero ferma a contemplare quella figura celeste mi venne l’idea: “perché non fotografarla?”

Non avevo la macchina fotografica con me, ma mancava poco per arrivare a casa, perciò mi rimisi subito in marcia, affrettandomi. Sarebbe stato bellissimo immortalare quella presenza angelica, per poi conservarla con amore.

Arrivata sotto casa, parcheggiai velocemente. Senza tirare via neanche le chiavi dal cruscotto corsi su a prendere la macchina fotografica. Uscii un minuto dopo sul balcone. Fissai il cielo: era terso e sgombro di nuvole, purtroppo non c’era più alcuna traccia dell’angelo.

Delusi, rimanemmo io e i miei figli per un po’ di tempo, con il naso all’insù, alla ricerca di quel bellissimo angelo che aveva lasciato in noi un segno tangibile della sua presenza. Ma fu tutto inutile, non riuscim

mo a vedere più niente che potesse rassomigliarli.

Il funerale della mia mamma si svolse il giorno dopo e fu cremata. Ora riposa insieme al mio papà. Sono sicura di aver fatto la scelta giusta. Il suo ricordo è più vivo che mai e la sento vicina. So che insieme agli angeli protegge me e la mia famiglia.

M. Doriana

Mi chiamo Giovanni M.,

sono un medico e vivo a Napoli, anche se sono originario della Sicilia. Ho letto il suo libro e sono rimasto incantato, in quanto pure a me è successo un caso simile.

Nel mese di giugno del lontano 1933, all’età di 7 anni giocavo a nascondino con altri ragazzi in una strada del quartiere dove abitavo. Questa strada costeggiava per un tratto una profonda scarpata, alta più di 20 m. Al di sotto di questa c’era il cortile di una casa colonica abitata da contadini.

L’incoscienza dell’età, non mi rendevo infatti ancora bene conto del pericolo, mi spinse a saltare il muretto di protezione della strada in modo da nascondermi dietro un piccolo promontorio di terra a ridosso del muro.

Mi accucciai dietro quel piccolo riparo e aspettai che il mio compagno contasse fino a 30, come voleva il gioco, pronto ad uscire appena si fosse allontanato dalla base e così vincere il gioco, ma non andò così. All’improvviso il terreno cedette, il piccolo promontorio di terra, forse fiaccato dalla piogge dei giorni precedenti, franò ed io precipitai giù, rovinosamente per la scarpata.

Ero ancora piccolo, ma al momento della caduta ricordo che vidi un bambino più piccolo di me che mi prese per mano e mi disse con la voce gioiosa: “Giovannino, scendiamo”.

Volai giù da più di 20 metri di altezza e benché cadessi su un mucchio di paglia che un contadino aveva messo lì sotto da non più di 5 minuti, per me non c’erano speranze, il salto era troppo alto.

Rimasi a terra esamine. Dalla strada la gente, che si era affacciata al muretto, vedeva il mio corpo a faccia in giù nella paglia e gridava:

“È morto Giovannino, è morto Giovannino!”

Tutti erano convinti che fossi rimasto ferito mortalmente. Alcuni corsero giù per soccorrermi, ma per farlo dovevano fare un lungo giro. Altri chiamavano a gran voce il contadino che abitava giù affinché uscisse ad aiutarmi. Qualche altro corse ad avvisare i miei genitori.

In poco tempo sulla strada si era raccolta una piccola folla e la notizia si propagandò con una rapidità eccezionale in tutto il paese suscitando le grida di dolore delle donne, che accorrevano in massa.

Finalmente uscì qualcuno dalla casa colonica vicino dove ero caduto. Era la moglie del contadino. Le gridarono che un bambino era caduto giù per la scarpata. Appena la donna capì, si diresse di corsa

verso il punto che indicava la gente.

Ma all’improvviso il colpo di scena, proprio come in certi film. Mi rialzai da terra e, come se niente fosse successo, mi andai a nascondere di corsa dentro la stalla. Avevo paura dei rimproveri di mia madre.

Quando riuscirono a trovarmi scoprirono che non mi ero fatto assolutamente niente. Ero illeso, come se fossi saltato da una sedia, mentre avevo fatto un volo di più di 20 m.!

Tutti gridarono al miracolo!

Il fatto fece tanto scalpore che un cronista del “Giornale di Sicilia” venne ad intervistarmi, sottoponendomi a un fuoco di domande sul mio stato di salute. Volle anche fotografare il luogo dove era successo il fatto per illustrare l’articolo con un’immagine.

Da quel momento per me, quel bambino, che avevo visto e che mi aveva salvato, divenne Angelino e mi ha accompagnato per tutta la vita. Ancora oggi nei momenti di sconforto lo sento vicino a me e spesso ne avverto la presenza.

Io sono sicuro che si è trattato di una presenza angelica.

Giovanni M. – Napoli.

Sono la signora Carmela A.,

ho letto il suo libro che ho trovato davvero molto bello. Vorrei raccontare una storia che mi è accaduta tempo fa.

Era il 1975, una notte sognai che ero alla guida di un motorino. Ad un certo punto, mentre procedevo per strada, a un incrocio, un camion mi investì ed io rimasi a terra, come morta.

L’incubo mi destò. Una volta sveglia e resami conto dell’irrealtà di

quell’esperienza, cercai di calmarmi ripetendomi che era stato solo un brutto sogno. Non solo era tutto falso, ma quella ragazza non potevo essere io, perché non solo non sapevo guidare un motorino, ma non né avevo mai posseduto uno!

Passarono gli anni e cambiai abitazione. La nuova casa era fuori dal centro urbano, perciò se non volevo essere schiava dei mezzi pubblici, che passavano quando volevano loro, dovevo farmi un mezzo di locomozione. Fu così che mi comprai un motorino e imparai a portarlo.

Passò qualche anno e tutte le cose andavano bene, mi ero dimenticata del tutto di quel sogno che avevo fatto quella notte, ma un giorno questo diventò realtà.

Una mattina, uscendo di casa non mi accorsi che un camion sopravveniva a forte velocità sulla strada principale. Oltre tutto avevo anche torto, perché per immettermi nel traffico dovevo dare la precedenza sia a destra, che a sinistra. Chiaramente la colpa era anche del camionista, che procedendo così forte su quella strada non mi aveva dato sufficiente tempo per guardare bene, infatti era sbucato all’improvviso dalla curva in fondo alla strada.

Quando lo vidi, era troppo tardi. Mi ricordo il volto spaventato dell’autista che incominciò a frenare, ma andava troppo forte per fermarsi in tempo. Era un camion che trasportava il latte, non so perché ma questo particolare mi è rimasto particolarmente impresso.

Io, mi resi conto subito del pericolo, ma, paralizzata dal terrore, fui incapace di girare il manubrio o di fare qualche manovra per evitare l’impatto. Rimasi come impietrita, chiusi gli occhi, aspettando il colpo, rassegnata ormai a morire.

Ma invece di essere investita dal camion, caddi a terra. Riaprii gli occhi, ero finita sul marciapiede. Sentii dietro di me il fragore della frenata del camion, che si fermò molti metri più avanti.

Come ero riuscita ad evitare l’impatto? Ci pensai un istante e mi resi conto che qualcuno, all’ultimo momento, aveva girato il manubrio, salvandomi da quello scontro frontale. Chi poteva essere stato?

Il camionista fu il primo a soccorrermi. Anche lui, in seguito, confermò che, terrorizzata, andavo avanti dirigendomi verso il centro della strada, incapace di girare. Poi, all’ultimo minuto, c’era stato un colpo violento di manubrio e avevo girato a destra. Questa brusca virata mi aveva fatto ritornare verso il marciapiede e poi cadere a terra, ma era stata la mia fortuna perché così avevo evitato di andare a finire sotto il camion.

Giunse altra gente, mi volevano portare per forza in ospedale, ma a parte qualche escoriazione non avevo niente di rotto.

Chi mi aveva salvato da quella morte certa? Sono sicura di non aver girato io il manubrio, perché ero impietrita dal terrore. Mi ricordo benissimo che una forza misteriosa aveva dato un brutto scossone al manubrio, girandolo sulla destra. Chi aveva fatto una cosa del genere?

Io, a distanza di anni, sono sicura che è stato il mio angelo custode, che ha vegliato sempre su di me fin dalla nascita. Quando ha visto che era perduta ha dato un colpo al volante che mi ha fatto ruzzolare sul marciapiede salvandomi dalle ruote di quel camion.

Un saluto dalla signora Carmela

Egregio professore,

sono una ragazza di nome Katia D. P., e abito ad Angri in provincia di Salerno. Leggendo il suo libro sugli angeli ho scoperto che nelle ultime pagine c’era un indirizzo per chi volesse scrivere una testimonianza sugli angeli. Le storie raccolte nel volume mi hanno fatto riflettere, così ho deciso di raccontare anch’io un episodio straordinario che mi è accaduto qualche anno fa.

Era notte fonda e tutti i miei familiari dormivano profondamente, tutte le luci della casa erano spente, io ero a letto, ma non riuscivo a prendere sonno. Pensavo ad alcuni fatti che mi erano successi durante la giornata, come faccio spesso.

All’improvviso ai piedi del mio letto si diffuse una grande luce. La guardo, ma benché fossi abbagliata non mi dava fastidio agli occhi. Incominciai ad avere paura e infilai istintivamente la testa sotto le coperte.

Cercai di chiamare mia sorella che dormiva nella stessa stanza, ma non ci riuscii, perché ero come paralizzata. Non riuscivo ad aprire la bocca, le mie labbra sembravano incollate e la mia lingua non ubbidiva più agli ordini del cervello.

Restai qualche secondo in quella posizione, con la testa di sotto, poi abbassai le coperte, per vedere. La curiosità vinse sulla paura. Quell’essere, non so come altro chiamarlo, era ancora lì.

Era un angelo con una grande e lunga veste bianca, due ali dietro la schiena, aveva due occhi azzurri e una barbetta bionda intorno al mento. I capelli erano lunghi e lisci e gli arrivavano fin sopra le spalle. Rassomigliava tanto alla figura di Gesù raffigurata sui quadri, ma sono certo che non era lui, perché aveva due ali bianche.

Venne verso di me. Quando mi fu vicinissimo, mi sorrise, ma non parlò. All’improvviso com’era apparso, così scomparve. Da allora non l’ho più visto, ma so che è sempre vicino a me, perché sono sicura che si trattava del mio angelo custode.

Questa storia, anche se per lei può essere insignificante, per me ha avuto un grande valore, perché mi ha fatto capire che nessuno di noi è solo e che gli angeli esistono davvero.

Katia D. P. _ Angri (SA)

Egregio scrittore,

sono un insegnante elementare in pensione della provincia di Latina e le voglio raccontare una cosa che mi è capitata esattamente il 1 giugno 1999, mentre ero ancora in servizio.

Qualche giorno prima, un mio alunno era caduto mentre stava giocando a calcio nell’oratorio vicino casa. All’inizio sembrava una cosa da niente, ma successivi accertamenti appurarono che la conseguenza della caduta era stato lo spappolamento della milza con una forte emorragia interna.

Portato di corsa in ospedale, fu operato d’urgenza. Le sue condizioni erano gravi e i medici dissero che la sua vita era veramente appesa a un filo, solo un miracolo poteva salvarlo.

La mattina seguente l’operazione, all’inizio delle lezioni, invitai gli alunni a dire una preghiera per il loro compagno. Poi, dimenticandoci di quel dolore nascosto nel nostro animo, incominciammo le normali attività didattiche.

Erano circa le 13. La classe era in totale silenzio perché intenta ad eseguire alcuni esercizi di matematica. Mentre con l’occhio li sorve

gliavo, con l’altro stavo esaminando dei compiti e perciò la mia mente era tutta presa dalla loro correzione.

A un tratto sentii un profumo intensissimo di rose, mi voltai verso destra, da dove sembrava che provenisse. Pensai che qualcuno avesse messo dei fiori nel vaso, che era su un tavolo accanto alla lavagna, ma non era così. Il vaso era vuoto. Andai alla finestra cercando di capire se questo profumo venisse da fuori.

Annusai varie volte fuori della finestra. No, ero sicura: proveniva da dentro l’aula.

Allora mi rivolsi agli alunni e chiesi loro se qualcuno avesse aperto una boccetta di profumo in classe, per fare uno scherzo. Tutti alzarono gli occhi sorpresi verso di me, meravigliati da questa domanda.

Tacqui, pensando che forse era solo una mia impressione o un’allucinazione olfattiva. Ma qualche minuto più tardi, alcune alunne esclamarono sorprese:

  • Maestra, che forte profumo di rose!

Allora non mi sbagliavo, non lo sentivo solo io. Ben presto anche gli altri bambini confermarono; tutta la classe l’avvertiva.

Chiamammo il collaboratore scolastico addetto alle pulizie, per chiedere se stavo usando del detersivo profumato nel corridoio. La risposta fu negativa.

Eravamo tutti in piedi cercando di capire da dove provenisse quell’odore così intenso. Mandai a chiamare anche altre maestre per farlo sentire … ma all’improvviso, così come era apparso, svanì. In classe, rimase solo l’odore del gesso.

Nel pomeriggio ci arrivò la bella notizia. Il mio alunno, che era stato operato al mattino pressappoco nell’ora che avevamo sentito il forte odore di rose, era fuori pericolo. L’operazione era andata benissimo,

anche i medici dell’ospedale si meravigliarono molto, perché il bambino aveva perso molto sangue e pensavano che non sarebbe stato in grado di recuperare.

Chi era stato quel santo che l’aveva salvato? Forse Padre Pio? Eppure non era stata fatta alcuna preghiera in tal senso!

Il giorno dopo, la notizia si diffuse, anche il direttore del nostro circolo didattico venne appositamente in classe e volle sapere da me e dagli alunni con precisione ciò che avevano sentito. Tutti i bambini confermarono le mie parole. Effettivamente avevamo sentito un forte profumo di rose che non aveva nessuna spiegazione razionale.

Mi creda, signor Gargione, tutto ciò che le ho raccontato corrisponde a verità. So, che si tratta di una storia che non ha niente di eclatante, ma penso che anche in questi piccoli avvenimenti misteriosi si avverte la presenza divina.

La ringrazio di avermi ascoltato e le auguro di trovare tante altre belle testimonianze da raccontare nei suoi libri, perché tali letture fanno davvero tanto bene all’anima.

C. Antonietta.

Carissimo dott. G. Gargione,

Ciao, sono Ivana una ragazza di 23 anni, ho da poco finito di leggere il vostro libro sugli angeli. Non vi scrivo per annoiarvi o per farvi perdere tempo, ma voglio raccontarvi come ho acquistato il suo libro. L’ho trovato in una fiera.

L’ho scelto fra tanti perché per una ragione misteriosa mi attirava di più. Non so dirvi perché, eppure ho già visto e letto decine di libri

sugli angeli.

Le racconto la mia storia. Era poco prima di Natale, per me era un periodo bruttissimo. In seguito a un incidente d’auto ero costretta a stare a letto per un problema alla spalla ed altre complicazioni, che non vi sto a raccontare per non annoiarvi. Tutto sta, che ero molto depressa e demoralizzata. Vedevo tutto nero e non riuscivo a riprendere gusto per la vita.

È stato con questo sentimento negativo che ho incominciato a leggere il vostro libro.

Una cosa meravigliosa che ho scoperto è che ogni volta che lo aprivo e ne leggevo alcune pagine, sentivo dentro di me un senso di pace e di benessere enorme. Quelle storie, le vostre parole, il vostro modo di raccontare mi facevano stare ogni giorno meglio. Ad un certo punto ho smesso anche di prendere i farmaci per la depressione.

Non sono guarita, ma ho ritrovato una pace interiore della quale sentivo la mancanza da molto tempo.

Voi, signor Gargione, non smettete mai di scrivere libri sugli angeli, perché potrebbero aiutare tante persone. Il vostro modo di narrare, di presentare i fatti, li portano a riviverli quasi si fosse presente di persona. Ed è importante che ci siano degli scrittori che raccolgono delle storie di angeli e poi ne parlino alle persone che non hanno mai visto uno, ma che in un determinato momento della loro vita ne vogliono sentir parlare, perché a parte qualche storiella, chiaramente leggendaria, nessuno ti racconta mai niente.

Io personalmente credo molto negli angeli e del mio sento spesso la presenza, anche se purtroppo non l’ho mai visto. Ma il solo pensiero di sapere che qualcuno veglia sempre su di me, mi fa stare già meglio.

Un sentito grazie, ciao.

Mi chiamo Maria Rosaria,

ho 13 anni e frequento la terza media. Tempo fa, con la mia famiglia andammo visitare Capua. In un piccolo mercatino dove si trovavano oggetti di tutti i tipi, da quelli più antichi a quelli più moderni, che sarebbe meglio chiamare cianfrusaglie, c’era un piccolo reparto riservato alla vendita di libri. Non era molto interessata, ma essendo per natura curiosa, diedi un’occhiata. Dopo pochi minuti, trovai il suo libro: gli angeli, che attrasse particolarmente la mia attenzione.

Lo comprai e al ritorno a casa, cominciai più per curiosità che per interesse, a leggere le prime storie. Dopo due giorni non riuscivo ad andare a letto, se non dopo aver letto una di quelle affascinanti storie, che riga per riga, mi appassionavano sempre di più.

Prima non credevo molto agli angeli, ma leggendo quelle storie, il racconto di quegli incontri con meravigliose creature celesti, ho avuto anch’io la sensazione di non essere sola. Ora sono sicura anch’io che dietro di me c’è un angelo custode, messo là dalla pietà celeste affinché non mi smarrissi in questo mondo di peccato.

Ripeto, non ho avuto mai esperienze del genere, ma reputo coloro che hanno conosciuto il proprio angelo delle persone davvero fortunate.

Complimenti anche a lei, che ha avuto la brillante idea di scrivere questo volumetto per far conoscere a tutti l’esistenza degli angeli. L’ho apprezzato molto, davvero molto bello. Penso proprio che lo leggerò tante e tante volte ancora.

Anche le poesie non mancano della loro bellezza. Anch’io scrivo poesie e ho voluto dedicarne una al mio angelo, visto che non le ho potuto fornire nessuna storia da pubblicare.

Al mio Angelo

Non so,

non so con certezza dove sei,

forse dietro di me o al mio fianco,

o forse in su. Non so,

so soltanto che accanto a me

c’è un vuoto, ma è strano,

sento un qualcosa o forse qualcuno

che mi sospinge … !

Nel profondo del vuoto

so che c’è la mia, la tua felicità.

Lo so, sei tu: il mio angelo,

forse un giorno ci incontreremo

per discutere della mia vita,

ma quel che so

è che resteremo per sempre insieme.

Maria Rosaria

Gentile Signor Gargione,

mi chiamo Valentina V. e sono una studentessa universitaria, della provincia di Latina.

Qualche settimana fa, ho comprato e iniziato a leggere, il suo interessante libro “GLI ANGELI”, su queste creature celesti dolcemente magiche, splendidamente uniche e candidamente delicate che ci aiutano ogni giorno, per tutto l’arco della nostra vita e ci stanno accanto nei momenti di gioia come in quelli di tristezza.

Sono rimasta veramente colpita da tutte le storie raccolte nel suo libro, per questo motivo volevo complimentarmi con lei, non solo per come ha impostato bene il suo libro, ma anche perché credo ferma

mente che le storie che ha scritto nella sua opera siano vere.

Sicuramente una di queste creature angeliche è intervenuta nella vita di queste persone.

Voglio inoltre augurarle buona fortuna per il prossimo libro che scriverà, spero che riceverà lo stesso successo del precedente. In attesa di leggere la sua prossima opera, le mando i miei più affettuosi saluti.

Valentina V. – Cisterna.

Mi chiamo Simona,

e scrivo da un piccolo paese in provincia di Frosinone. Ho 28 anni e da molto tempo amo gli angeli. Mi piacciono tantissimo, li cerco nei mercatini, nei negozi, ovunque. Ho riempito la mia stanza di angeli.

Un giorno vidi il suo libro e lo comprai. Lo stesso giorno incominciai a leggerlo, le sue storie avevano il potere di incantarmi.

Una sera, ero sola nella mia stanza, presi il libro e una penna e pensai: “Chissà se esistono davvero gli angeli? Veramente proteggono gli uomini e succedono tutte le cose descritte in questo libro?”

Appoggiai la mia mano libera su un foglio bianco senza sapere nemmeno io il perché. Stranamente incominciai a tracciare delle linee. Era come se la mia mano si muovesse da sola. Il risultato furono delle linee ondulate che sembravano incomprensibili.

Lasciai che la mia mano vagasse liberamente senza freni, né pensieri, ancora per molti minuti, poi alla fine presi in mano la pagina piena di questi linee. Sembravano scarabocchi senza senso, poi come per incanto mi apparve una figura: rappresentava una persona che sembrava in difficoltà ed un angelo che accorreva in aiuto a soccorrerlo. Rimasi di stucco, il foglio mi cadde dalle mani.

Era la risposta alla mia domanda? Era stato il mio angelo a guidarmi la mano?

Ho messo quel disegno in un libro, ancora oggi non so che pensare, però sono sicuro che il mio angelo custode mi è sempre vicino.

Non so, se la mia è stata un’esperienza celeste o stata solo il frutto di autosuggestione, ma si tratta di una piccola testimonianza che io ho voluto darle, poi lei è libero di pubblicarla o non.

Lo so che non so scrivere, che la mia non è una storia lunga, ma ho voluto raccontarla lo stesso. Non l’ho detta mai a nessuno per paura che mi prendessero per pazza.

Simona B., Broccostella.

Gentil.mo scrittore,

ho deciso di raccontare la mia storia perché nel leggere il suo libro ho scoperto che lei era scettico sugli angeli proprio come me.

Fino a pochi anni fa ero atea, una scelta questa che avevo maturato perché convinta che alle mie domande solo la scienza poteva dare delle risposte certe. Sono stata sempre, infatti, una persona che ha cercato di trovare una spiegazione scientifica a ogni fenomeno, forse perché mi piacevano le scienze esatte come la fisica o perché, studiando psicologia (sono al quarto anno di università), so che quasi sempre visioni, allucinazioni o roba del genere non sono altro che alterazione chimiche a livello del cervello indotte da sostanze o generate da disturbi mentali.

Dopo questa precisazione, mi presento: sono Francesca una ra

gazza di 22 anni, abito in provincia di Napoli, felicemente fidanzata da più di quattro anni. Ma non è di questo che vi volevo parlare, ma di un fatto straordinario che mi successo qualche tempo fa mentre ero in chiesa.

Ero in crisi col mio ragazzo per via di una mia amicizia soltanto telefonica con un ragazzo milanese, con cui mi confidavo spesso.

Un pomeriggio decisi di leggere un libricino sugli angeli di St. Thomas che mi era stato regalato pochi giorni prima dal mio ragazzo. Lo lessi tutto d’un fiato. Rimasi confortato dall’idea che in questo mondo così triste e pieno di cose brutte, qualcuno potesse essermi vicino.

Ad un certo punto, vinta da una pulsione irresistibile decisi di recarmi in una chiesa. Erano anni che non lo facevo. Così mi vestii ed uscii prima del previsto. Entrai in una chiesa. Era proprio la situazione che desideravo, non c’era il prete a dire messa, né molta gente, ma soltanto un paio di persone che pregavano in disparte.

Mi inginocchiai vicino all’altare, in un posto dove potevo starmene da sola. Iniziai a piangere sommessamente come avessi subito un lutto. Qualcosa dentro di me, mi rendeva estremamente triste.

Chiesi aiuto al Signore e al mio angelo, soprattutto domandai loro un segno della loro presenza. Mi guardai intorno, attesi a lungo, ma non accade nulla.

Un po’ delusa uscii dalla Chiesa e mi diressi con la macchina a casa del mio ragazzo. Quando vi giunsi, spensi il motore e stavo per scendere, quando sentii l’impulso irresistibile di guardare il telefonino. Il display s’illuminò da solo, passò alla rubrica e iniziò a scalare tutti i nomi in maniera velocissima, poi si fermò sul nome di mio cugino Enzo.

Rimasi perplessa, confusa, che c’entrava mio cugino con la mia storia?

Ci pensai per un po’, poi, incapace di dare una risposta alla mia domanda, riposi di nuovo il telefonino nella mia borsa.

Il giorno dopo seppi che mio cugino era morto in un incidente in

autostrada in uno scontro frontale tra due auto a più di 100 km/h alla stessa ora in cui il telefonino si era illuminato.

Era il segno che avevo chiesto al mio angelo?

All’inizio ho cercato la solita spiegazione scientifica. Mi sono rivolta a vari centri assistenza, tutti mi hanno risposto che il telefono non poteva attivarsi da solo. Ho provato anche con altri tecnici, la risposta è stata sempre la stessa: “Non era possibile”. Non solo mi hanno assicurato che era tecnicamente impossibile, ma spesso mi hanno preso in giro o trattata come fossi pazza. C’è stato addirittura chi mi ha consigliato di andare da un esorcista.

Ma io sono tutt’ora convinta che il telefonino ha fatto tutto da solo.

È proprio vero, se non li chiami, gli angeli non vengono. Da quel giorno ho sentito il bisogno di chiamare spesso il mio angelo e ho avuto di nuovo fede, anche se non so neanche io a quale Dio credere. Quello di cui sono certo è che gli angeli ci sono e aspettano di essere chiamati.

Se un giorno dovessi decidere di inserire la mia storia nel suo libro preferisco restare nell’anonimato.

Francesca T.

Egregio signor Gianni,

ho trovato per caso il suo libro su un banco di un mercatino su cui si vendevano monete antiche. Non c’entrava per nulla, ma proprio per questo mi ha colpito.

Non le scrivo per raccontarle la mia storia, ma per darle un’ulteriore testimonianza dell’esistenza di Dio e dei suoi angeli. Alcune storie mi hanno particolarmente colpito, ma in modo particolare mi è piaciuta la poesia che rappresentava una sintesi eccezionale dell’espressione immediata dell’amore di Dio. Per farle capire fino a quale punto è profonda la mia esperienza, ho deciso di mandarle una mia poesia:

Avverto l’esistenza

dell’essere che mi è a fianco

intenso … il suo profumo traspira,

come gocce di sudore sulla mia pelle

disegnando il suo profilo.

Pieghe di gioia o di dolore

definiscono lineamenti

quasi sovrapposti ai miei,

sempre

inesorabilmente insieme,

per affrontare la vita.

S. T. Serramazzoni (Mo)

Mi chiamo Leonarda

e sono di un paese della provincia di Agrigento. Sono sposata da anni e madre affettuosa di ben 4 bambini. Purtroppo non ho nessuna storia da raccontarle, solo un fatto straordinario che mi è accaduto alcuni anni fa.

Mi ricordo che era il mese di luglio e mi ero messa a letto per riposarmi, anche se non dormivo. Di fronte a casa mia c’era una villetta che intravedevo dal balcone. Non avevo chiuso ancora gli occhi, quando ho visto vicino a me nella nebbia, un viso meraviglioso, incandescente, soave, sorridente, calmo, bellissimo e pieno d’amore. Purtroppo, tutte queste parole, anche se tante, e forse neanche tutte le parole del mondo, bastano a descrivere l’essere che era vicino me.
Il muro sembrava che non ci fosse più, c’era semplicemente nebbia e fumo bianco. Poi scomparve, da allora non l’ho mai più visto. Era il mio angelo custode?

Spero proprio di sì e spero di vederlo di nuovo un giorno.

Non sappiamo il motivo per cui avvengono certe cose, ma per me, che non mi sono mai confidata con nessuno per paura di essere presa per una visionaria, aver avuto l’opportunità di parlarle di questo fatto è stata molto importante. Ogni volta, infatti, che racconto qualcosa del genere perdo un’amica perché pensano che sia un po’ matta. Mi ero rassegnata a far finta di niente e non parlarne con nessuno fino all’altro ieri, quando per caso mi portarono il suo libro, comprato per sbaglio.

Sono veramente felice di averlo letto, mi ha ridato la voglia di vivere più serenamente.

P. L. _ Agrigento.

Mi chiamo Maria

e le scrivo dalla provincia di Pordenone. Alcuni anni fa ho avuto una visione che vorrei far conoscere a tutti.

Mia figlia più piccola, che all’epoca aveva 12 anni, fu ricoverata in ospedale per un attacco di appendicite acuta.

Quel pomeriggio ero in ospedale da sola. Mio marito non era potuto venire per impegni di lavoro. I miei due figli più grandi erano fuori, non c’era stato nemmeno il tempo di avvertirli.
Mia figlia era in sala operatoria e io aspettavo fuori impaziente.

Nel corridoio c’era una statua della Madonna, mi inginocchiai ai suoi piedi e mi misi pregare. Per fortuna non c’era nessuno.

Ho provato una grande serenità, poi finite le orazioni sono uscita sul terrazzo, faceva molto caldo.

Senza volerlo mi sono messa a parlare da sola per la tensione, anzi più che parlare pensavo, qualche volta pronunciando delle parole. Ero in ansia per mia figlia, temevo che qualcosa potesse andare storto. D’accordo, non era un’operazione difficile, ma in queste cose non si sa mai, basta che l’anestesia non prenda bene o un’infezione o una qualsiasi complicazione e le cose si possono mettere male.

Chiedevo al mio angelo custode di assistere mia figlia e di guidare la mano dei medici che l’operavano. Ad un certo punto gli chiedo:

  • Io parlo con te, ma non so nemmeno come ti chiami. Dammi un segno, dimmi una sola parola.

Ma attesi invano, non successe nulla. Poi sentii aprire la porta, rientrai nella stanza. Era un infermiere. Gli chiesi notizie ansiosa. Mi rispose che era andato tutto bene e che mia figlia stava per uscire.

Mi misi all’uscita della sala operatoria, difatti dopo pochi minuti uscì su una barella. Era ancora addormentata. Gli infermieri la riportarono di nuovo in reparto. Alcune ore più tardi si svegliò.

La sera chiesi il permesso ai medici di restarle accanto, era la prima notte dopo l’operazione. Furono molto comprensivi, misi una sedia vicino al suo letto e mi preparai a passare la notte lì.

Per fortuna le cose andarono molto bene, mia figlia non tardò a prendere sonno, la ferita non le faceva molto male, perciò cercai di

riposare anch’io.

Mi ero appisolata, quando sentii un strano suono all’orecchio destro, era come una frequenza di onde. Rimasi immobile ad ascoltare, non riuscivo a capire di che cosa si trattasse.

Poi sentii una voce dolce e chiara che mi diceva al rallentatore:

  • DANIELLL!!!!

Mi girai di scatto impaurita, ma non c’era nessuno. Mi alzai e mi guardai intorno; le altre pazienti dormivano profondamente. Mi diressi verso il corridoio, aprii la porta: era deserto.

Allora chi aveva pronunciato quel nome come in un eco? A chi apparteneva quella voce?

Tornai a dormire sulla sedia a sdraio, sicura di aver avuto un’allucinazione. Ma quella notte non ho dormito pensando a quella voce bellissima.

Era il mio angelo custode?

Poi mi ricordai che nel pomeriggio gli avevo chiesto il suo nome. Aveva voluto in quel modo rispondere alla mia domanda? Era davvero quello il suo nome?

Non l’ho mai saputo, perché quella voce io non l’ho sentita mai più. Però quando la sera prego, mi rivolgo a lui, lo chiamo con questo nome: Daniele, il nome più dolce che io abbia pronunciato.

Da quella volta lo prego sempre e sono certa che lui mi aiuta nelle piccole cose. Di questo fatto non ho mai parlato con nessuno, per paura di essere presa in giro. È stato davvero il mio angelo custode a parlare per farmi sapere il suo nome?

Se fosse stata una voce frutto di un’allucinazione sicuramente la mia mente avrebbe partorito un nome a me più familiare: come Gabriele o Michele. Non solo, ma le allucinazioni spesso si ripresentano più volte, io invece non ho mai più sentito quel nome.

Tutta qui la mia esperienza, ancor oggi sono convinta che non è stata un’allucinazione e che l’ho sentito davvero quel nome e che Daniel è il nome del mio angelo custode.

Maria C. – Pordenone.

Sono un poliziotto

ed abito in provincia di Roma. Ho voluto scriverle per farle conoscere la mia testimonianza sugli angeli.

Prima non credevo molto in Dio, ma dopo la tragedia di mio figlio, che a 21 anni si è tolto la vita, mi sono avvicinato molto alla chiesa. La nostra salvezza è stata, infatti, la fede.

Grazie a un sacerdote, che divenne il nostro padre spirituale, siamo riusciti, io e mia moglie, a superare il terribile momento. L’abbiamo fatto soprattutto perché abbiamo imparato che il nostro compito è di continuare a vivere, aiutando il prossimo e pregando nei momenti bui. Seguendo i consigli di questo sacerdote, siamo usciti dal baratro, riacquistando pian piano la fiducia nel Signore.

Un giorno, in un momento di sconforto, pregai il Signore che mi desse un segno per incoraggiarmi a proseguire la vita, in quanto mi sentivo svuotato nello spirito e privo di stimoli e qualche volta nella mia mente depressa si era affacciato il pensiero di farla finita. Ed un giorno veramente il Signore mi diede un segno della sua presenza.

Una sera di agosto, ero di pattuglia con un mio collega. Stavamo parlando del gesto di mio figlio, quando verso le 21.30, terminato il

controllo del settore, decidemmo di rientrare in sede.

Poi, non so per quale motivo misterioso, prolungammo il giro. Giunti a un incrocio, ci fermammo per il semaforo rosso. Ad un certo punto, notai che nella macchina parcheggiata alla nostra sinistra, una ragazza stava aprendo lo sportello. Uscì di corsa dall’auto, gridando aiuto.

Quello che mi colpì furono i suoi occhi che cercavano subito i miei, nonostante il mio collega forse più vicino a lei.

Immediatamente ci portammo con il nostro veicolo davanti al suo, in modo da bloccare ogni eventuale tentativo di fuga. In un primo momento, infatti, pensammo a uno stupro o a un sequestro di persona.

Scesi dalla macchina, mi precipitai ad aprire lo sportello dov’era la ragazza. Non notando segni di violenza, le chiesi che cosa era successo.

Lei, spaventata, mi disse che il suo ragazzo si voleva suicidare.

In quel momento scattò in me una molla, rividi il dramma di mio figlio. Aggredisco verbalmente il ragazzo con parole appropriate. Lo prendo per i vestiti e lo scuoto, spiegandogli che, con il suo gesto, avrebbe causato un gran dolore alla sua famiglia, alla sua ragazza e agli amici.

Gli chiesi, poi, il perché di quel folle proposito. Mi rispose che voleva farla finita perché la sua ragazza voleva lasciarlo, in quanto non gli voleva più bene.

Capii che dovevo agire con tatto, perciò cercai di calmarlo e di farlo ragionare. Gli dissi che tanti litigi tra fidanzati il giorno dopo sono già dimenticati, che sicuramente lei ci avrebbe ripensato, ma anche se non fosse andata così, era un bel ragazzo e avrebbe avuto chissà quante altre possibilità di innamorarsi di un’altra donna.

Il ragazzo con gli occhi di ghiaccio e il sudore grondante alla fronte, incominciò a riflettere, capì l’enorme errore che stava facendo e promise di non provarci mai più. Poi l’atmosfera si fece più distesa fino a diventare quasi amichevole: ringraziamenti, saluti. Alla fine ripartimmo, allontanandoci.

In quel momento non mi sono reso conto della straordinarietà di quell’incontro, poi ci ho riflettuto sopra e ho pensato che quelle due persone potevano essere due angeli scesi in terra per farmi capire di proseguire la vita e per darmi nuovi stimoli. Ci sono 4 fatti che spingono a pensare una cosa del genere:

Per primo, le circostanze che ci hanno portato a quell’incrocio. Dovevamo rientrare in sede, mentre senza alcun motivo razionale abbiamo deciso di prolungare il giro.

Per secondo, l’evento è accaduto in strada, ciò rende la storia molto strana. Sappiamo che chi si vuol togliere la vita lo fa in luogo appartato e non lo dichiara apertamente alla sua ragazza

Terzo, perchè la ragazza si è rivolta direttamente me e non al mio collega che era più vicino a lei? Perché i suoi occhi hanno cercato direttamente i miei?

Questo particolare mi ha impressionato molto

Quarto, le ricerche successive di rintracciarli in tutti i modi, per sapere se lui ci avesse riprovato, sono state vane.

Ho chiesto a un sacco di gente, nessuno ne sapeva niente, erano come svaniti nel nulla.

C. Claudio – Roma

Mi chiamo Elisa G., abito a Livorno.

Un anno e mezzo fa, precisamente una notte di dicembre 2000, scivolai in un sonno profondo.

Sognai un bellissimo giovane uomo, aveva i capelli neri, a riccioletti, non troppo lunghi, pelle candida e gli occhi azzurro chiaro. I suoi lineamenti erano molto sottili e delicati, era alto, magro e aveva delle bellissime mani. Stranamente era vestito di nero, anche se il suo abito mi sembrò bellissimo.

Mi svegliai, pensai a lui: era bellissimo e non riuscivo a capire chi potesse essere. L’ho sognato svariate volte per molti mesi.

Quando uscivo cercavo il suo volto tra la folla. All’inizio, infatti, non pensavo minimamente che potesse essere un essere celeste. Mi ero convinta che fosse qualcuno intravisto da qualche parte e rimasto intrappolato nel mio inconscio. Per questo motivo lo cercai a lungo tra la gente, ma non riuscii mai a trovarlo, neanche qualcuno che gli rassomigliasse un po’.

Senza volerlo, finii per innamorarmene. Di quel periodo ricordo solo che stavo male perché desideravo tanto incontrarlo di persona.

Una sera, ero in salotto, sul divano, a un certo punto gli occhi mi lacrimarono improvvisamente senza un motivo particolare. Incominciai a sentire caldo. Era come se ci fosse qualcosa che alzasse la temperatura della stanza eppure i termosifoni erano spenti.

All’improvviso, vidi una sagoma bianca, vicino alla porta di casa. Lo riconobbi subito: era l’uomo dei miei sogni!

Allora capii che non era un essere di questa terra, qualcuno che avevo conosciuto ed era rimasto impresso nella mia mente.

Si capiva chiaramente che non poteva essere una persona in carne e ossa, perché lo vedevo come un’ombra, era infatti trasparente.

Questa scena si è ripetuta un’altra volta, questa volta in camera,

pochi giorni dopo.

Un po’ spaventata, un po’ incuriosita mi rivolsi a una cara amica di mia madre, una persona molto profonda e religiosa. Ansiosa, le chiesi che cosa pensasse di questi sogni e di queste apparizioni. Lei mi consigliò di comprare un libro sugli angeli e di leggere qualcosa sui modi con cui si potevano manifestare. Da questi libri meravigliosi e tanti altri libri sull’argomento, come il suo, ho capito che era il mio angelo custode e oggi lo sento sempre intorno a me.

La mia storia è molto semplice, forse sarà inutile per il suo libro, ma io non posso aggiungerci niente di più, perché non posso inventarmi cose che non ho visto. La mia è una semplice testimonianza, ma vera e autentica. Io sono sicuro che le mie non sono state delle allucinazioni e che ho visto davvero quell’essere celeste.

Le mando i miei sinceri saluti e auguri per il suo prossimo libro.

Elisa G. _ Livorno.

Mi chiamo Marisa,

e scrivo da un piccolo paese della provincia di Salerno, esattamente da S. Marco di Castellabate sulla costiera Cilentana.

Credo molto negli angeli e spesso ho avuto dei sogni premonitori, che poi si sono avverati. Ad esempio, la morte di mia madre mi fu preannunciata in un sogno. Una notte sognai che mio nonno, cioè il padre di mia madre, che era morto da molto tempo, era venuto a casa nostra e tutto contento mi aveva detto: “Me la porto con me.”

Sapevo che egli l’amava molto, ma capivo perfettamente il significato di quelle parole: volevano dire che era giunto il tempo che mia

madre lasciasse questo mondo e perciò, sempre in sogno, piangevo per questo.

Poi mi svegliai, fui felice di scoprire che era solo un brutto sogno, ma il giorno dopo andai a casa di mia madre. Soffriva da tempo di diabete perciò i giorni successivi le feci fare tutte le analisi, in particolare controllare la glicemia. Non risultò niente di grave.

Tutta contenta dissi a me stesso che i sogni premonitori sono una cretinata, che dato che avevo paura della salute di mia madre, questi timori si erano materializzati in un sogno. Mi sono ripetuta moltissime volte che non doveva preoccuparmi, che si trattava di un falso allarme, che questa volta mi ero sbagliato.

Raccomandai a mio fratello minore, l’unico non sposato, che ancora viveva con lei, di stare attento, soprattutto di badare alla sua dieta.

Non passò nemmeno un mese che mia madre un pomeriggio avvertì dei forti dolori alla pancia. La portammo al pronto soccorso, il medico pensò che era meglio ricoverarla. I giorni successivi le fecero gli esami di routine: il verdetto fu spietato, tumore al colon.

Mi ricordai del mio sogno e piansi, purtroppo anche quella volta non mi ero sbagliata. Non passarono nemmeno quattro mesi che accompagnammo mia madre all’ultima dimora: un piccolo cimitero di paese in cima a una collina, da cui si gode un panorama incantevole.

Ma il sogno che si rivelò più realistico fu quello su mio fratello. Per ben 3 notti di seguito sognai che era molto ammalato, anzi gravemente ferito. Era ricoverato in ospedale e noi familiari piangevamo perché eravamo convinti che dovesse morire. Però, non sapevo che male avesse o quale incidente l’avesse ridotto in fin di vita.

L’indomani mattina telefonai a casa e chiesi sue notizie. Mi rispose

ro che stava benissimo, mai stato così bene.

Altri notti rifeci lo stesso sogno. Questa volta mi allarmai. Andai a casa da mio fratello e lo supplicai di non andare per mare per un po’ di tempo (era pescatore), né di allontanarsi con la macchina. Cercò di calmarmi, dicendomi che erano tutte sciocchezze, paure infantili che dovevo superare. Non gli era successo niente e mai gli sarebbe successo qualcosa. Mi promise che sarebbe morto vecchio e sdentato a 99 anni.

Purtroppo anche la notte successiva rifeci lo stesso sogno. Questa volta mi alzai. Ne ero sicura, un pericolo incombeva sul più piccolo dei miei fratelli.

In silenzio, andai in corridoio a pregare vicino la Madonnina che tengo nell’angolo, dove ho messo un piccolo altare, con fiori e luci. Mi inginocchiai e supplicai il mio angelo custode:

  • Ti prego salvalo, fai qualcosa per lui!

Passò ancora qualche settimana. Mi ero dimenticata un po’ di quei sogni, perché mio fratello stava bene e non gli era successo assolutamente niente. Mi dicevo che questa volta era stato solo un brutto scherzo dell’inconscio. Ma un giorno, purtroppo, scoprii che anche questa volta non mi ero sbagliata.

Quel pomeriggio andai a casa a visitare i miei familiari (era anche una scusa per vedere se mio fratello stava bene, in quanto ormai mi ero fissata).

Trovai tutti in agitazione, la casa di miei genitori era affollata di gente. Chiesi timorosa cosa fosse successo.

Mi raccontarono che mio fratello minore, quello dei sogni per intenderci, l’aveva scampata bella. Quel pomeriggio avevano attaccato al primo piano un paranco per sollevare le reti da pesca che erano molto pesanti.

Ad un certo punto, era salito di sopra per sganciare le reti, ma qualcosa andò per il verso sbagliato perché il paranco si staccò dal gancio e gli rovinò addosso. Per fortuna lo sfiorò soltanto, altrimenti lo avrebbe ammazzato sul colpo.

Ma anche se non lo colpì in pieno, lo sbilanciò, facendolo cadere dal balcone, che era senza ringhiera perché stavano facendo dei lavori.

Era vero che stava soltanto al primo piano, ma le conseguenze potevano essere lo stesso molto gravi. A peggiorare la situazione c’era il fatto che proprio sotto di lui c’era un grosso bidone in cui avevano messo a bollire della vernice.

A quei tempi i pescatori si tingevano da soli le reti. Facevano del fuoco e vi mettevano sopra, in un grosso bidone di ferro, a bollire della vernice. Quando era pronta vi calavano dentro le reti in modo che diventassero colore marrone e fossero meno visibili ai pesci.

Ora, dato che mio fratello stava cadendo a testa in giù, se vi fosse finito dentro, sarebbe morto di sicuro. Se, invece, andava a finire con la testa o con un braccio sul bordo del bidone l’avrebbe avuto tranciato di netto dalla lamiera. Insomma da come si erano messe le cose, qualcosa di grave doveva per forza succedere.

Invece, per un miracolo cadde a fianco del bidone, che era quasi un metro di circonferenza, e si ritrovò con i piedi per terra.

Ne uscì tumefatto, graffiato, tramortito, ma senza nessun ferita grave.

Quando si riprese, ci raccontò di un fatto stranissimo. Si ricordava chiaramente che mentre stava cadendo letteralmente a testa in giù, in uno stato di semi coscienza, qualcuno lo aveva rimesso in posizione

verticale, cioè con i piedi in giù. Egli non vide alcun viso o una figura, sentì soltanto su se stesso due forti braccia che lo giravano. Azione che lo salvò da una sicura morte, perché se cadeva a testa in giù, come minimo, avrebbe riportato un trauma cranico.

Gli chiedemmo se aveva visto o sentito qualcuno.

  • Nessuno – ci rispose _ sono solo sicuro che qualcuno mi ha rivoltato. Mai avrei potuto farlo da solo perché il paranco sfiorandomi la testa mi aveva tramortito. Nel cadere ero cosciente di ciò che stava succedendo intorno a me, ma ero incapace di fare una qualsiasi azione, persino muovere un braccio. Era come immobilizzato dal terrore o forse come conseguenza della botta in testa.

Io non dissi niente, per paura di essere presa per pazza. Ma sono sicuro che un angelo lo avesse girato in volo, rimettendo in posizione verticale, solo così si era potuto salvare.

La sera non dimentico mai di ringraziarlo nelle preghiere. Mio marito mi dice sempre che se mi permetto di fare un altro sogno, mi caccia di casa. Da allora non è più successo, spero che duri a lungo.

Marisa D. L. – S. Marco (SA).

Mi chiamo Maria e sono di Napoli,

non so se la mia può essere ritenuta una storia di angeli, ma ve la racconto lo stesso.

Il mio primo matrimonio durò soltanto tre anni, poi lui mi lasciò. Ma fui fortunata, subito dopo conobbi un altro uomo, 11 anni più grande di me, che mi ha fatto veramente felice. Da lui ho avuto cinque figli,

per questo motivo quando uscii di nuovo incinta, decisi di andare in clinica per abortire.

Mi dispiaceva molto farlo, ma avevo già cinque figli, di cui uno ancora di 7 anni, e avevo serie difficoltà a provvedere ai loro bisogni, a seguirli e a badare a loro.

La notte precedente, il mio ricovero in clinica per abortire, stavo da sola in cucina preparando la cena. All’improvviso sentii una voce che mi sussurrava:

  • Non andare!

Mi girai intorno, non c’era nessuno. Controllai che la televisione e la radio fossero spente. Non avevano nessuna spia luminosa accesa. Non le avevo accese, infatti, perché mi sentivo depressa e non aveva voglia di sentire nessuno.

Chi poteva aver parlato? Eppure quella voce l’avevo udita davvero. Poi rientrarono due dei miei figli e non ci pensai più.

Quando la mattina dopo mi alzai, era confusa, indecisa, combattuta fra me stessa. Preparai come un automa le mie cose da portarmi in ospedale, tra mille ripensamenti, poi alla fine arrivata sull’uscio di casa ascoltai quella voce.

Mi dissi, se il signore vuole che tenga questa bambina (non so perché, ma ero convinta fin dall’inizio che fosse una femmina), lo farò, dove mangiano cinque, mangiano anche sei e così feci.

Oggi questa bambina ha 14 anni, si chiama Katia ed è veramente un angelo. È bella, è buona, è affettuosa, è studiosa (mentre gli altri hanno tutti lasciato presto la scuola) ed è senz’altro il migliore dei miei figli.

Ringrazio Dio di avere ascoltato quella voce, perché se non l’avessi fatto ora mi sarei ritrovata sola: Mio marito, l’anno scorso, se ne è andato a vivere con una straniera.

I miei figli, ormai tutti adulti, chi si è sposato e chi se ne è andato a lavorare lontano, mi è rimasta solo lei, la mia unica gioia e consolazione. Sono sicura che quando sarò vecchia, sarà l’unica ad assistermi, perché gli altri sono come questi giovani moderni: pensano solo a se stessi.

Se avessi abortito, ora sarei stata la madre più disperata di questo mondo!

Maria – Napoli

GRAZIE A TUTTI

COLORO CHE HANNO SCRITTO

Sono in molti che mi hanno scritto in questi anni. Purtroppo il tempo è tiranno e non ho avuto tempo di rispondere a tutti, di ciò mi scuso e mi rammarico.

Su questo volume voglio ringraziare in particolare:

Cavallo Maria, Spilimbergo (Pordenone) – De Francesco Maria, Messina – Giacomo Libertino, Caltagirone (CT) – Alpreda Carmela, Piano di Sorrento (NA) – Greggi Rosa, Roma – Gabriele De Francesco, Barcellona (ME) – Paniglulo Marianna, Grottaglie (TA) – De Francesco Maria, Messina – Concetta Moncada, Catania – Russo Adele, Napoli – Pellicci Clementina, Roma – Concetta Moncada, Catania – Antonella Pietralcino, Palagiano (TA) – Ettore Dorella, Taranto – Lionetti luigina, Cassano delle Murge (BA) – Giovanni Siniscalchi, Napoli – Manfrinati Doriana, Venezia – Comandino Claudio, Monteporzio Catone (Roma) – Giusy La Gioia, Capurso, Bari – Arancini Rosa, Pozzuoli (NA) – Pellici Clementina, Roma – Della Giana Anna Manila, Lecce – Mariarosa Moccia, S. Antimo (Napoli) – Francesca la Mola, Siracusa – Iole Luisa, Messina – Savarino Rosa, Torino _ Carbone Rosa, Barletta – Montecaccio Giovanni, Foggia – Pietracito Antonella Gallico, (R. C.) _ Regina Maria Comunale, S. Paolo; Brasile – Alessandro Corsi, Livorno – Casillo Orsola, Trecase

(NA) – Leonarda Paci, Campobelli di Licata, Agrigento – Cherson Antonietta, Latina – Annalisa Sardella, Foggia – Elisa Giordano, Livorno.

Come pure chiedo profondamente scusa a tutti coloro a cui non ho dato sufficiente attenzione, ma la ristrettezza di spazio mi ha costretto a fare delle scelte.

In molti casi, però, non ho citato i nomi solo perché non ho ricevuto l’autorizzazione a renderli noti. Voi sapete che la legge è estremamente severa e non volevo mettermi nei guai per una leggerezza.

Ad ogni modo, conservo tutte le lettere (datate e firmate) a disposizione di chi volesse mettere in dubbio le mie parole.

Per quanto riguarda la fedeltà ai fatti accaduti, se talvolta mi sono concesso qualche “licenza poetica” è stato solo per dare al racconto una forma letteraria avvincente o per “allungare un po’ il brodo” ma assolutamente non si è travisata la realtà. In effetti, si è trattato, sempre di particolari che non cambiavano il contenuto degli eventi narrati.

Al contrario, sono stato sempre estremamente preciso quando ho descritto l’esperienza straordinaria al centro del racconto, preferendo sempre le stesse parole usate da chi l’aveva vissuta.

IN UN’ALTRA DIMENSIONE

by Roy Kendler – USA

Avevo letto libri che parlavano di esperienze premorte, di individui che avevano visto una luce in fondo a un tunnel, avevo visto qualche volta alla televisione trasmissioni che parlavano di interventi extraterreni, di angeli che avevano salvato esseri umani nei modi più strani, ma avevo sempre tacciato queste persone come visionarie, finché anch’io non ebbi la mia esperienza, il giorno 27 settembre 1998.

Da allora non sono più superficiale e frettoloso nel giudicare, mi sono convinto che qualcosa esiste … e che c’è sicuramente un mondo al di là della morte. Da una parte ciò è motivo di apprensione, in quanto comporta la paura dell’ignoto, ma da un’altra parte è motivo di conforto in quanto so di certo che c’è una vita oltre la morte e che una parte di noi sopravvive alla dea nera con la lunga falce.

Come dicevo era l’anno 1998, verso le 10.30 di sera percorrevo l’autostrada 50, in Lakeville, Minnesota. Sono un’insegnante alla scuola secondaria di Lakeville e quella sera stavo tornando a casa, dopo essere stato a trovare la mia fidanzata. Una ragazza che amavo molto e che speravo di sposare presto.

Era una bella serata, indossavo un paio di blu jeans e la maglietta della Lakeschool football. Ero piuttosto stanco e andavo abbastanza veloce perché volevo arrivare a casa e mettermi presto a letto. L’indomani mi attendeva una giornata molto intensa, in quanto avevo prima scuola fino al pomeriggio, poi a sera un incontro di football.

Non ricordò più niente di quello che successe, l’ultima cosa di cui mi rammento è la luce abbagliante di due fari che venivano dalla mia sinistra, poi il mondo intero si rabbuiò. Evidentemente persi i sensi per un grave incidente.

Mi risvegliai, anzi non so se mi risvegliai o stavo solo sognando, ma ero in un’altra dimensione. Il mondo, quello fatto delle cose che conoscevo era svanito davanti a miei occhi. Ero avvolto da un’enorme luce bianca e il mio corpo era attirato come da un’immensa fonte di energia, ma non sapevo dove stavo andando. Voltandomi verso il basso, mi resi conto che navigavo sopra le auto che sfrecciavano sotto di me sull’autostrada.

Questa visione, che in altre circostanze mi avrebbe terrorizzato, sorprendentemente mi lasciava indifferente, anzi ero quasi felice di farlo. Ma come facevo a volare, come facevo ad essere più leggero dell’aria? Chi mi sorreggeva?

Mi volsi intorno e vidi, ai miei fianchi, due bellissimi angeli che mi portavano per mano, uno da un lato, l’altro dall’altro. Era dunque essi che mi sorreggevano.

All’improvviso un tremendo dubbio mi attraversò la mente: ma allora ero morto?

Questa constatazione che avrebbe dovuto gettarmi nella più cupa

depressione, invece non mi lasciava sorpreso più di tanto. Sorprendentemente ogni cosa era calda e bella.

Allora, la morte che ci fa così paura fin dalla nascita, se si è in pace con il Signore, è solo un piacevole viaggio verso un altro mondo?

E dire che viviamo tutta la vita con la paura della morte!

Non so, ma a un certo punto smisi di pensare. Cercai di odorare o forse di respirare, ma non sentii alcun profumo. Allora mi concentrai sul mio respiro. Feci un esercizio di respirazione, come avevo imparato in un corso di yoga e sentii che il mio corpo si rilassava sempre di più.

Poi di nuovo la sensazione di vagare sopra le automobili come se stessi per lasciare per sempre questo mondo. Provai ad aprire gli occhi, ma una luce mi abbagliava, anche se non mi disturbava eccessivamente. La potevo sentire calda sul mio viso e sulle mie braccia, mentre venivo attirato sempre più vicino alla sua fonte.

Mentre ero pervaso da questo torpore piacevole, non so perché, ma a un certo punto ebbi la sensazione di non essere pronto per andare. Sentivo che c’era ancora da fare per me sulla terra e che non era giunto il mio tempo. Gli angeli bellissimi che mi stavano portando via, stranamente, invertirono la di

rezione. Facendo un lungo giro, mi riportavano indietro sulla terra.

Non so quanto durò questa seconda parte del viaggio, ma ad un certo punto giungemmo sulla mia auto, che era un ammasso di lamiere contorte.

Poi per un istante non sentii più nulla. Scomparve ogni immagine e ogni percezione.

Mi ripresi con una forte sensazione di soffocamento, come se non riuscissi ad aprire la bocca ma … poi … fu come sfondare il muro, improvvisamente sentii l’aria riempire i miei polmoni.

Respiravo di nuovo finalmente.

Poi anche i miei occhi si aprirono lentamente, anche se non riuscivano ancora a mettere a fuoco. Una luce bianca mi circondava come un sole. Vedevo e non vedevo, tutte le cose intorno erano avvolte da una densa nebbia.

Iniziai ad avvertire un leggero dolore all’anca sinistra e a sentire il peso della mia testa sul collo. Di fronte a me c’era una ragnatela spessa e minacciosa, ma non capivo che cosa mi opprimeva.

Sentii delle voci borbottare, poi dei suoni. Ciò mi fece capire che ero ancora vivo.

Ma tutto ciò, in poco tempo divenne secondario di fronte al dolore che proveniva dal lato sinistro. La mia anca mi faceva veramente male, dovevo essermi ferito. Poi incominciai a sentire dolore anche alla gamba, dolore che aumentava ogni minuto di più.

Mossi la testa e mi resi conto che ero incastrato tra le lamiere dell’auto. Sentivo dei rumori, forse stavano lavorando per tirarmi fuori.

All’improvviso sentii la sensazione di una puntura nel mio avambraccio sinistro. La mia attenzione si rivolse verso la mia mano che era rimasta con il palmo in su, ma non riuscivo a capire che cosa mi pungeva o mi avesse trafitto. Cercai di girare la testa, ma non riuscivo

a farlo abbastanza per rendermi conto della mia esatta posizione.

Chiusi un istante gli occhi come per riposarli, poi li riaprii. Vidi di nuovo davanti a me quella terrificante ragnatela. Capii finalmente che cos’era: il parabrezza che era stato sfondato da qualcosa e ora, piegato in mille pezzi, rientrava all’interno dell’abitacolo come le maglie di una rete mostruosa.

La gamba sinistra mi faceva veramente male, la sentivo palpitare come se avesse un cuore dentro. Incominciai a sentire freddo, il mio corpo era percorso da brividi sempre più forti.

Cupi pensieri si impadronirono di me. Pensai che era finita, che non avrebbero fatto in tempo a tirarmi fuori da quell’ammasso di lamiere prima che fossi morto dissanguato o per ipotermia.

Pregai il Signore di aiutarmi.

Ad un certo punto, come d’incanto apparve un volto amico. Era un poliziotto o un pompiere, non so, mi ricordo soltanto che era un uomo in divisa.

Gli chiesi con un filo di voce:

  • Può togliermi questo coso da dentro la gamba?
  • Stia calmo – mi rispose sereno – stiamo lavorando per questo. Bisogna tagliare le lamiere con la fiamma ossidrica e ci vuole un po’ di tempo, ma le prometto che tra qualche minuto sarà libero.

Chiusi gli occhi, come ad accettare quel verdetto crudele.

Come ti chiami? – Poi mi chiese. Fu allora che capii che era un ufficiale di polizia.

  • Roy _ Risposi con un filo di voce, ma non so se riuscii a farmi sentire.
  • Roy e poi?

Capii che mi voleva far parlare, voleva evitare che mollassi, infatti dentro di me sentivo un desiderio irresistibile di lasciarmi andare. Avevo studiato queste cose in un corso di pronto soccorso che avevamo fatto a scuola.

  • Sai che giorno è oggi?

Io non avevo voglia di rispondere, gli dissi soltanto: “Non lo so, ma toglietemi questo coso dalla gamba.”

  • Stiamo facendo il più presto possibile, adesso stanno tagliando il tettuccio, tra un minuto la tireranno fuori. Tenga duro.

Improvvisamente mi ricordai che cosa era successo: ero stato investito da un automobilista, che poi si rivelò ubriaco, che ad un incrocio non si era fermato al segnale di stop.

Finalmente sentii la squadra di soccorso vicino a me. Mi allontanarono le lamiere dal viso, tirarono via i resti del parabrezza, e per ultimo, a poco a poco, sfilarono dalla mia gamba il pezzo di lamiera che vi si era infilato dentro. Durante quest’ultima operazione sentii un dolore tremendo, poi finalmente fui sulla barella.

Mi coprirono con delle coperte, in quanto ero ormai in ipotermia, e infine mi misero sull’autoambulanza dove un medico si prese cura di me.

Fui portato velocemente in ospedale dove fui stabilizzato. Mi fecero radiografie, non avevo grosse fratture, ma varie ferite in tutte le parti del corpo. Anche la ferita alla gamba si rivelò meno grave di quanto si era pensato all’inizio.

Sono stato più di una settimana in ospedale, un’altra settimana sulla sedia a rotelle, ma ho potuto camminare di nuovo con le mie gambe soltanto dopo mesi, nonostante le cure di medici veramente capaci.

Le partite di football della mia squadra le ho seguite tutte dai bordi del campo su una sedia a rotelle. Ma non mi lamento, da com’erano andate le cose quella sera dovevo essere morto, qualcuno lassù in cielo mi ha protetto.

Ogni volta che penso a quell’incidente e sono passati ormai alcuni anni, mi ricordo di quella notte. Stringo con le mani la mia gamba sinistra e provo lo stesso dolore che sentii allora. Non è ancora perfettamente guarita.

Ho pensato a lungo alla mia esperienza. Sono arrivato alla conclusione che ero ormai morto, ma qualcuno, forse il mio angelo custode, decise che per qualche motivo dovevo ritornare di nuovo su questa terra e perciò ordinò ai due angeli di riportarmi indietro.

Da allora svolgo opera di volontariato aiutando le persone bisognose. La mia associazione si interessa soprattutto dell’assistenza ai malati terminali di cancro che non hanno parenti o persone che si prendono cura di loro. A turno, li assistiamo amorevolmente confortandoli con la parola del Signore fino a che non intraprendono il loro ultimo viaggio da questa terra.

Era forse questa la missione a cui ero stato destinato e per cui sono

stato riportato su questa terra?

Non so, ma penso che a volte persone ormai morte sono restituite alla vita per intercessione di qualcuno lassù nel cielo. Spiego così le esperienze di premorte.

Per quanto riguarda me, sono certo che quella sera è stato il mio angelo custode ad intercedere per me e a farmi riportare sulla terra. Nel posto dove stavo andando era sicuramente nell’aldilà.

Per questo chiedo a voi tutti di pregare sempre il vostro angelo custode perché quando meno ve lo aspettate potrebbe correre in vostro aiuto.

DUE ITALIANI SUL K 2

Achille Compagnoni e Lino Lacedelli, dopo due mesi di lotte e di fatiche immani, nel 1954 riuscirono a raggiungere la vetta del K.2, all’incredibile altezza di m. 8.611!

Ma quello che pochi sanno è che nel momento cruciale ebbero un aiuto fondamentale da un angelo. Ecco la loro narrazione ricostruita in base alle dichiarazioni che Achille Compagnoni, alcuni anni dopo, fece in un’intervista a un noto giornale.

“Eravamo partiti con l’ossigeno necessario per arrivare in vetta, purtroppo le ore di cammino furono molte di più del previsto perciò ne restammo senza, a soli 100 m. dalla vetta. Secondo i piani dovevamo arrivare in vetta in 9 ore, sei per salire e tre per scendere, e invece le ore impiegate furono 19, ciò rese drammatica la nostra scalata.

Quando la vetta sembrava ormai a tiro, si rendemmo conto che non c’era più ossigeno nelle bombole e ciò mise a rischio l’esito dell’impresa. Per superare quegli ultimi 100 m. ci mettemmo, infatti, ben 3 ore e in nostro soccorso arrivò anche un angelo celeste.

Una volta che siamo rimasti senza ossigeno, infatti, per noi c’è stato una specie di collasso. Mi sono sentito piegare le gambe e mi sono trovato con la faccia nella neve.

In quel momento mi sono rivolto al mio compagno Lacedelli chie

dendogli come mi chiamavo. Ero, infatti, in uno stadio confusionale e non mi rendevo conto bene di che stava succedendo intorno a me.

Da come mi rispose, capii che anche lui soffriva degli stessi sintomi perché mi chiese come si chiamava la montagna che era di fronte a noi.

Capii che qualcosa nel nostro fisico non andava ed ebbi un grande terrore, il terrore di non essere più io, di essere impazzito. Sennonché, in quel momento di sosta, mi sono ritornate le forze e ho cercato di muovermi, di fare un passo.

Ma come ho fatto il primo passo, mi sono sentito trattenere. E in quel momento ho avuto la sensazione che ci fosse con noi una terza persona, e precisamente una donna. Una donna senza una fisionomia e quindi senza comprendere chi potesse essere. In quel momento ho pensato a mia mamma o a mia moglie.

Ma la donna che sembrava fosse con noi era una persona estranea, che ci invitava ad andare avanti, e mi diceva:

  • Andate, che ce la farete!

Solamente dopo aver fatto il primo e il secondo passo mi sembrava, nell’immaginazione, di sentire la corda tirare. Invece la corda non era tesa, erano le nostre forze che venivano meno”.

Achille compagnoni, strinse i denti e giunse in vetta. Forse non ce l’avrebbe mai fatta senza l’incoraggiamento di quella donna, che non poteva essere nessun essere umano.

La loro incredibile impresa fece il giro del mondo, in quanto era la prima volta che qualcuno scalava il k2, la montagna più alta del mondo dopo l’Everest!

LA MESSA DI MEZZANOTTE

Nessuna notte mi è sembrata più lunga di quella di tanti anni fa, quando vissi un’esperienza sconvolgente. Allora ero giovane e forte e non malato e stanco come oggi, con le membra scarne e il passo lento. Il mio posto d’inverno non era accanto al fuoco, per cercare quel tepore che il mio corpo non produce più. Ero giovane, dinamico, attivo e giravo molto perché amante di ogni avventura.

C’era la guerra e il cibo scarseggiava e per sopravvivere spesso facevo un po’ di contrabbando. Caricavo il mio asino di ortaggi e li andavo a vendere in città, al mercato nero, assai più lucroso di quell’ufficiale. Senza contare che spesso ci costringevano a consegnare i nostri prodotti all’ammasso, per nutrire le truppe al fronte. Ciò significava la fame per noi. Molte persone evitavano persino di coltivare i campi, in quanto se il governo si prendeva il raccolto, oltre al lavoro ci perdevano anche le sementi.

Erano tempi duri, la prima guerra mondiale è durata molti anni e abbiamo dovuto lottare duramente per poter sopravvivere.

Una sera o meglio una notte, tornavo dalla città dove ero stato a vendere della verdura per fare un po’ di soldi e sfamare i miei figli, quando mi accadde un fatto strano. Viaggiavo di notte perché di giorno era troppo pericoloso, se mi prendevano i carabinieri oltre a sequestrare la merce sarei finito in prigione e i miei figli avrebbero patito la fame.

Salivo per una di quelle stradine tortuose che si arrampicavano sui colli, di cui è ricca la nostra zona, per poi ridiscendere dall’altro lato, a valle. Non ero molto lontano da casa e passavo nei pressi di un paese dove conoscevo molta gente in quanto vi avevo lavorato per molti anni come sorvegliante, cioè accudivo le proprietà terriere di un barone.

Quella sera avevo cambiato itinerario perché mi avevano detto, che sulla solita strada spesso si appostavano i carabinieri. Viaggiavo solo, anche se era molto rischioso, in quanto portare qualcuno con me significava dividere i guadagni. Viaggiavo al buio solo con la luce delle stelle o della luna, quando c’era, perché un’eventuale torcia avrebbe rivelato la mia presenza anche a chilometri di distanza.

I miei occhi si erano abituati al buio della notte ed ero diventato bravo come i gatti a scorgere il sentiero. La mia asina, mia unica compagna di quei pericolosi viaggi, era diventata altrettanto brava come me a viaggiare nel buio e si arrampicava per quei sentieri impervi, con una destrezza inimmaginabile, senza mai lamentarsi o rifiutarsi.

Si era creata tra noi una specie di intesa, un affetto sordo tra uomo e bestia ed io ero sicuro che essa mi voleva bene come io gliene volevo a lei. Non l’avevo mai maltrattata, né le aveva fatto mancare il cibo, né l’avevo mai caricata eccessivamente. Era quasi una persona di famiglia e ci tenevo a lei quasi come a un figlio.

Quella notte arrivai in prossimità di un colle, mi guardai intorno

cercando degli indizi per orientarmi, in quanto non ero stato mai in quella zona. Per fortuna il cielo era stellato e c’era un po’ di luce, sebbene non c’era traccia della luna. Guardai verso nord e cercai la stella polare, che avevo imparato a riconoscere. Finalmente riuscii ad individuarla, e, dato che dovevo andare al nord, mi indirizzai in quella direzione.

Più avanti, dopo 10 minuti di cammino, notai una luce, dissi tra me: “Forse c’è una casa, bene, chiederò qualche informazione!”

Però mi misi all’erta, potevano essere i carabinieri, anche se dubitavo molto che i militi fossero così ingenui da accendere una luce ed essere così notati anche da lontano.

Quando mi avvicinai di più, riconobbi che era una chiesa, la cui porta era aperta e dall’interno proveniva una fioca luce.

  • Toh! _ esclamai – una chiesa, forse c’è una funzione, entro per sentirmi un pezzo di messa!

Presi dal taschino l’orologio e cercai in quel bagliore di stelle di vedere che ore fossero. Mi sembrò di capire che era quasi mezzanotte, ma non ne ero sicuro perché la luce era davvero poca e non riuscivo a scorgere bene le lancette dell’orologio.

Legai l’asina vicino a un albero, sebbene non ce ne fosse bisogno in quanto non sarebbe mai fuggita, ma qualche animale selvaggio poteva spaventarla, ed entrai.

All’ingresso si notava un chiarore venire dall’interno. Non ci feci caso perché all’epoca non c’era ancora la luce elettrica. Superata la soglia, sulla sinistra c’era un piccolo corridoio, in fondo al quale una porta aperta. Una volta che ebbi superata anche questa, fui nella chiesa. Effettivamente c’era una funzione religiosa.

  • Una messa di mezzanotte – pensai.

La cosa non mi meravigliò molto, perché da noi in certe occasioni, come Natale, Pasqua e altre feste importanti, questa era l’usanza. E quello se non sbaglio, doveva essere il giorno dei morti. Non ero mai stato molto religioso e perciò non mi interessavo delle festività, anche perché, dato il perdurare della guerra, avevo problemi ben più seri a cui pensare.

La chiesa, nonostante l’ora, era affollata, ma non strapiena, infatti quasi tutti i banchi erano occupati. Mi sorprese il fatto che la chiesa fosse illuminata soltanto da due file di candele, poste vicino all’altare. Qui, tre vecchi preti celebravano, in modo mesto e stanco una messa.

Le candele dei lampadari principali della chiesa, posti al centro e lungo le navate, erano invece spente, come pure le torce lungo le fiancate. Forse non avevano abbastanza olio o cera, cosa non strana perché, dato la guerra, c’era penuria di tutto.

Il pubblico, invece, era illuminato dalle candele che molte persone tenevano accese, reggendole con la mano e proteggendole con l’altra come temessero che da un momento all’altro un alito di vento, potesse spegnerle.

Diedi un’occhiata tra la gente presente a quella tetra funzione. Mi colpì il fatto che il pubblico fosse composto quasi esclusivamente da persone tristi, con i visi scavati, pallidi, come se avessero sofferto a lungo la fame. Sembravano statue di un antico museo di cera infarinati dal tempo e dalla polvere.

Ma non c’era da meravigliarsi molto, c’era la guerra, molti avevano avuto padri, mariti o figli morti al fronte, inoltre c’era la fame, non c’era certo motivo per essere allegri. E poi scarseggiava anche il sapone e l’acqua bisognava andare a prenderla al pozzo, non ci si lavava certo tutti i giorni.

L’altra cosa che mi sorprese osservando quelle persone fu che si muovevano in modo compatto, come un misterioso esercito di soldati di terracotta, quasi ubbidendo a precisi ordini. Un popolo mesto e disciplinato, che compiva uno oscuro rito.

I banchi erano divisi in due grandi “blocchi” da un corridoio centrale. Sulla sinistra c’erano quelli occupati dalle donne, quasi tutte col capo coperto da uno scialle nero rigido, di forma quadrata, come era in uso all’epoca. A destra, c’erano invece gli uomini: ordinati, composti, con i vestiti grigi e le mani giunte in preghiera.

Anche questo allora era normale. In chiesa gli uomini normalmente sedevano divisi dalle donne.

Mi avvicinai all’acquasantiera per immergervi la mano e farmi il segno della croce. C’era pochissima acqua, appena sufficiente per bagnarsi le dita. Ma dati i problemi che c’erano, non c’era da meravigliarsi, che si fosse asciugata e nessuno da molto tempo ne avesse aggiunta dell’altra. Il sagrestano aveva sicuramente da pensare a cose ben più gravi.

Mi avvicinai in fondo ai banchi e rimasi incerto sul da fare, se ascoltare un po’ di messa o andare via subito.

Notai che mi ero sbagliato, non si trattava di una messa officiata da tre sacerdoti, solo uno era un prete, gli altri erano due chierichetti, anche se ambedue adulti. Cosa inusuale da noi, perché erano sempre i ragazzi a servire la messa. Ma data l’ora tardi, neanche questo mi sembrò strano.

L’altra cosa che mi rimase impressa fu una enorme croce di bronzo con su l’immagine di Gesù che si ergeva accanto all’altare.

Uno dei due chierichetti aveva in mano un incensiere che faceva

oscillare incessantemente avanti e indietro, lasciando ora a destra, ora a sinistra delle nuvolette bianche di fumo, il cui odore di incenso si diffondeva nell’aria.

Addebitai a questo fatto l’aria nebbiosa e l’atmosfera grigia di quella chiesa, che sembrava immersa in una leggera foschia. Sicuramente quest’effetto era dovuto anche alla poca luce delle candele, ma era naturale che all’epoca le chiese di sera fossero scarsamente illuminate. Neanche nelle nostre case c’era tanta luce allora, bisognò aspettare la luce elettrica per sconfiggere definitivamente le tenebre della notte.

Ad un certo punto, forse sollecitato da quell’odore piacevole di incenso o da quell’atmosfera grave e raccolta, fui sorpreso da un desiderio irresistibile di lasciarmi andare e assistere a quella funzione così suggestiva. Ma fuori della chiesa avevo lasciato l’asina e perciò mi proposi di restare solo 5 minuti, il tempo di fare qualche orazione.

Incuriosito o forse per cercarmi un posto a sedere, mi avvicinai, avanzando nel corridoio centrale, a uno degli ultimi banchi fino a portarmi di lato alle persone che assistevano.

Diedi un’occhiata tra la gente per vedere se conoscevo qualcuno, ma non scorsi alcuna faccia familiare. Quello che mi colpì fu la loro espressione triste e rassegnata, come venata da una malinconia eterna.

Alcuni di essi mi notarono e si strinsero per farmi posto. Incoraggiato da questo gesto, entrai in un banco accanto ad alcuni di essi, così da potermi sedere e riposare qualche minuto prima di intraprendere il lungo viaggio che mi attendeva.

Eravamo oltre metà messa, chiaramente officiata in latino. Sentii la voce del sacerdote che diceva chiaramente

  • Dominum vobiscum

e le persone che rispondevano: “Et cum spirito tuo”

Pensai che dovevo uscire prima che finisse la funzione per evitare

di perdere l’asina nella confusione.

Guardai nella fila davanti a me e mi sembrò di riconoscere una persona che non vedevo da molti anni. Lo chiamai sottovoce ed egli si girò, accennando un sorriso. Sì, si trattava di don Peppe un vecchio che avevo conosciuto alcuni anni prima a una fiera. Era di un paese vicino al mio. Che ci faceva a quella funzione? Come mai si trovava là?

Stavo per fargli qualche domanda quando si levò un canto latino:

  • kyrie eleison

Quando finì il canto, mi girai dalla sua parte, ma non c’era più. Forse aveva cambiato posto. Fu allora che incominciai a sospettare. Quell’atmosfera cupa e nebbiosa, quei visi depressi e lontani mi misero in allarme. In quella funzione c’era qualcosa di strano.

Un istinto animalesco mi fece fiutare del pericolo. Ma che cosa c’era che non andava?

Osservai con curiosità sospettosa a una ad una le persone a me vicine. Mi sembravano persone normali, non vedevo come avrebbero potuto costituire un pericolo per me.

Ma era inutile tormentarsi con mille dubbi, l’unica cosa sensata era cercare una faccia simpatica e chiedere qualche informazione.

Feci con gli occhi un attento giro intorno a me, ma non trovai nes

suno che mi ispirasse fiducia.

Volsi allora lo sguardo all’altro blocco di banchi, tra le donne, ma anche qui non riuscii a scorgere nessuna persona di mia conoscenza. Notai che anch’esse avevano un’aria mesta e afflitta, con gli sguardi vuoti, protesi verso l’altare.

Ad un certo punto, un’anziana donna attirò la mia attenzione, mi sembrava di conoscerla: era Zia Maria: una mia lontana parente emigrata tanti anni fa in Brasile. Che ci faceva qui?

Seri dubbi incominciarono a tormentarmi la mente. Uscii dal banco, ero tentato di avvicinarmi a lei e chiederglielo, ma all’epoca era ritenuto quasi uno scandalo che un uomo si avvicinasse ai banchi delle donne.

Scartata l’idea, cercando di non farmi notare avanzai lentamente ancora alcuni metri nel corridoio centrale. Volevo vedere se tra i banchi più avanti c’era qualcuno che conoscevo. In fondo erano di un paese non molto lontano dal mio, quindi sicuramente ci doveva essere tra di loro qualche amico.

Una curiosità morbosa mi spingeva a chiedere informazioni; anche perché volevo capire che cosa non andava in quella funzione.

Una volta che mi fui portato quasi a metà della fila, volsi lo sguardo tra le persone sedute nei banchi vicini. Osservai a uno a uno quei visi assorti, ma non riuscii a trovare nessuno di mia conoscenza.

Un’altra cosa che notai era che le persone presenti a quella funzione erano quasi tutte anziane, soltanto pochi erano di mezza età. I bambini, poi, erano addirittura rari. In tutta la Chiesa ce n’erano sì o no, un paio. Anche questa era una cosa strana, perché all’epoca quasi tutte le persone, compresi i bambini, si recavano spesso in chiesa.

Avanzai ancora qualche metro, arrivato alla terza fila, finalmente

notai seduto oltre la metà della fila, un vecchio che mi sembrò di conoscere. Si, era mastro Girolamo, un uomo che viveva impagliando le sedie. L’avevo visto più volte alle fiere dove portava le sedie da vendere. Pensai di avvicinarmi per salutarlo e avere qualche informazione, poi all’improvviso mi ricordai:

“Ma era morto!”

Questo pensiero mi bloccò e non ebbi il coraggio di andare oltre.

Poi fui assalito da mille dubbi. Forse mi sbagliavo, non era lui. C’era poca luce, le persone erano vestite tutte uguali, mi dissi che era facile sbagliarsi. Rimasi fermo in attesa di un’occasione per osservarlo meglio. Quando si girò un istante per inginocchiarsi, lo vidi benissimo in viso.

Era molto invecchiato e il suo viso era scavato e stanco, come avesse sofferto una lunga malattia, ma sembrava proprio lui, ne ero certo.

Ma era impossibile, perché era morto per un tumore alla gola. Mi ricordo che aveva fatto il giro di tutti gli ospedali per cercare qualcuno che lo operasse. Ma era stato inutile, nonostante l’operazione fosse andata bene, dopo un po’ il cancro si era riformato ed era morto dopo poco tempo.

Ma no! _ un’altra voce dentro di me mi suggeriva _ Che ne sai che è morto, se hai perso i contatti da anni? Forse si era operato di nuovo ed era sopravvissuto.

No, era morto! _ replicava la voce della ragione – Se mi ricordo bene, un amico all’epoca, mi aveva detto di essere stato al suo funerale.

Se era morto come poteva essere presente a quella funzione?

Questo dubbio enorme non fece suonare dentro di me solo un cam

panello di allarme, ma provocò una vera e propria esplosione di panico. Fui sul punto di darmela a gambe, ma poi mi bloccai. Perdere il controllo poteva essere la cosa peggiore, dovevo cercare una via d’uscita.

Istintivamente feci un altro passo avanti. Mi girai e lo guardai di nuovo, forse era suo fratello o qualcuno che gli rassomigliasse o forse c’era una spiegazione razionale a tutto. Come poteva essere pericolosa per me della gente che ascoltava una messa?

Cercai di calmarmi e ragionare. L’unica spiegazione possibile era che, con quella luce così fioca, quell’atmosfera così tetra, con quella massa di gente allineata e coperta come un plotone di soldati, era facile sbagliarsi.

Poi mi feci coraggio, morto o non morto, la cosa migliore era avvicinarsi e scambiare qualche parola. Forse esisteva una spiegazione logica ed io stavo a preoccuparmi per niente.

Mi avvicinai al suo banco e cercai di farmi spazio tra la gente per portarmi al suo fianco, ma nonostante chiedessi permesso, con un fil di voce per non farmi udire, quasi nessuno si mosse. Riuscii ad avanzare solo di un posto: una persona che scavalcai approfittando di un po’ di spazio libero, ma per arrivare a lui dovevo scalare ben sette posti e così ci rinunciai.

Ma i misteri incominciarono a infittirsi nella mia mente. Perché quella gente faceva resistenza? O meglio, si capiva benissimo che nessuno si muoveva perché temeva di perdere il suo posto come gli fosse stato assegnato da un’autorità superiore.

Poi ci riflettei meglio. Era ragionevole, volevano ascoltarsi la messa in santa pace senza essere disturbati. Anch’io al loro posto, se qualcuno fosse venuto a scocciarmi per passare mentre ero seduto, mi sarei seccato molto. Dovevo cercarmi una persona vicina al corridoio

così da parlare sottovoce senza disturbare nessuno, così uscii dal banco e feci un altro passo avanti.

Nel frattempo era giunto il momento della comunione. All’invito del sacerdote la gente uscì dai banchi e cantando, si avviò, formando una lunga fila, verso l’altare per ricevere l’ostia. Ne dovevo approfittare, per spostarmi senza dare nell’occhio, perciò mi inserii subito nella fila.

Anche al lato del blocco femminile si formò una lunga fila di donne col capo coperto e le mani giunte in segno di preghiera che, cantando, procedevano lentamente verso l’altare. Dato che mi venivano più vicine era il momento buono per osservarle meglio. Guardai le prime due o tre, ma non mi sembrò di conoscerne qualcuna.

Poi, fu il turno di una vecchietta con passo esitante, il viso scarno, di un biancore enorme; aveva uno scialle bianco tutto merlettato che le copriva il capo e i capelli e le scendeva fino sulle spalle.

Mio Dio! Ma quella era zia Teresina. Una mia zia che era morta quando ero ancora ragazzo. Una sorella di mio nonno, che non si era mai sposata. La ricordavo sempre quando regalava qualche capo di biancheria alle nipotine. Dato che in gioventù s’era fatto un ricco corredo in attesa di matrimonio che non era mai venuto, una volta avanti con gli anni aveva regalato un pezzo alla volta i capi di quel corredo che gli era costato tanto sudore, affinché almeno potessero fare felice qualcun altro.

Questa volta mi misi veramente in allarme. Come poteva essere viva? Se lo fosse stato, avrebbe avuto almeno 100 anni!

Cercai di calmarmi dicendo che forse mi sbagliavo, che le vecchie

di una certa età con la loro pelle rugosa, l’andamento curvo, vestite più o meno allo stesso modo si rassomigliavano tutte, e che la mia fantasia, eccitata dalla paura e da quell’atmosfera particolare e la luce soffusa, mi facevano riconoscere dei volti che in realtà erano solo vaghe rassomiglianze che la mia mente, ormai in preda al panico, attribuivano ad una o all’altra delle persone conosciute, ma ormai non convincevo nemmeno me stesso. Dovevo andare via prima che fosse troppo tardi!

Nel frattempo le prime persone che avevano preso la comunione incominciarono a tornare indietro, formando una seconda fila parallela. Ne approfittai per unirmi a queste persone, l’una dietro l’altra, per andare verso l’uscita.

Non sapevo perché, ma sentivo un desiderio imperioso di tornare sotto il cielo stellato. Era quasi una smania, un bisogno fisico di aria che mi soffocava la gola ed opprimeva il petto.

Oltretutto correvo il rischio che qualcuno fuori mi rubasse l’asina o qualche animale selvaggio la spaventasse, facendola fuggire.

Mentre passo passo guadagnavo l’uscita, ad un certo punto, improvvisamente mi sono trovato faccia a faccia con mio zio Emilio, che andava prendere la comunione!

Appena lo vidi non potei fare a meno di esclamare, soffocando però la mia voce cosicché nessuno potesse udirmi:

  • Tu zio qui, che ci fai?

Egli non rispose, col suo viso grave portò l’indice sul naso e mi fece segno di zittire. Una cosa che notai subito e che mi sembrò strana: portava un pesante cappotto grigio sulle spalle e la testa calva era lucida. Ma questa era una sciocchezza, la cosa più importante era veramente lui?

L’osservai bene. Questa volta non mi sbagliavo, non si trattava di

una rassomiglianza, era veramente lui.

Poi un pensiero tremendo mi trafisse la mente. Ma era morto! Era morto con un infarto, l’avevamo seppellito tre anni prima ed ero stato anche al suo funerale.

Ma allora quella messa, quel rito non era per i vivi, era per i morti. Dove mi trovavo?

Forse ero in pericolo. Le ginocchia incominciarono a vacillarmi per la paura. Un oscuro terrore si impadronì di me.

Zio _ volevo chiedergli _ dimmi, ma tu non eri morto? – Ma non ebbi il coraggio di profferire parola perché avevo paura che gli altri mi notassero.

Ma egli fortunatamente mi anticipò e mi fece cenno di zittire, poi con le dita mi indicò di girare e di mettermi in fila accanto a lui.

Una volta che gli fui accanto e l’accompagnavo in quella fila, stavo bene attento alle sue labbra perché egli stava per dirmi qualcosa.

Poi con un fil di voce, sicché potessi sentirlo solo io, mi chiese: “Sei morto anche tu?”

No zio – gli risposi – sono ancora vivo, ora c’è la guerra, mi trovavo di passaggio di qui.

  • Ma come hai fatto ad entrare? Non sai che questa è una Messa per le persone che non appartengono più al tuo mondo. Non vedi, sono tutti morti, compreso i sacerdoti.
  • Addio, zio – gli risposi in preda al panico – vado via, fuori ho l’asina.

Me la stavo per dare a gambe, ma egli mi fermò con un braccio

  • No, non dare nell’occhio, se si accorgono che sei vivo non ti lasceranno uscire da questa chiesa, perché hai violato il segreto dei morti.
  • Allora dimmi, come devo fare, non voglio morire, ho ancora dei bambini piccoli a casa, chi li sfamerà? C’è la guerra, le persone muoiono come le mosche, nessuno soccorrerà i miei bambini.
  • Fai finta di niente e prosegui insieme a me. Arrivato al punto dove le due file si toccano, in un momento di confusione passa nell’altra fila, tra le persone che hanno già fatto la comunione e, confuso in mezzo a loro, vai in fondo alla chiesa.

Lì, quando nessuno ti nota, bagnati le dita nell’acqua santa e fatti il segno della croce. Poi, dopo una leggera genuflessione, avviati come niente fosse verso l’uscita, con indifferenza, come stessi uscendo dalla chiesa la domenica mattina dopo la funzione. Non correre, non fare gesti strani o troppo veloci. Se vuoi uscire di qui vivo nessuno deve far caso a te, devi sembrare uno dei tanti.

Ricorda appena finirà la comunione, ci sarà la benedizione, fino allora tu non sarai in pericolo, ma quando il prete benedirà con il segno della croce e dirà: “Ite missa est”, le porte si chiuderanno, le finestre si sbarreranno, le luci si spegneranno e le tombe, sotto la chiesa, si riapriranno. Tu per allora dev’essere fuori, altrimenti resterai qui per sempre.”

Mi fece un cenno di saluto con la mano e andò avanti. Io, pieno di paura, feci come mi aveva detto. Andai avanti per un po’, però, non aspettai di arrivare dove le due file si sfioravano, perché ci voleva troppo tempo e non ce la facevo a resistere, approfittando della confusione creata da un vecchietto che incespicò, urtando con il bastone, passai nella fila che andava verso l’uscita.

Avanzai lentamente, insieme a quelle persone lente e stanche, contando smaniosamente quei pochi metri che mi mancavano alla porta, finalmente fui all’ultima fila di banchi.

Nel percorrere gli ultimi metri, per sbaglio urtai un vecchietto che incrociai. Mi guardò con insistenza, poi aprì la bocca per parlarmi, ma le sue labbra si muovevano senza emettere nessun suono. Voleva dirmi qualcosa, ma era come fosse muto perché non riuscì ad emettere parola. Forse voleva avvisarmi del pericolo o forse si era accorto che non ero morto, pregai dentro di me, che non parlasse con altri.

Tirai avanti, non dovevo farmi distrarre da nessuna cosa e guadagnare l’uscita.

Finalmente arrivai all’acquasantiera di marmo. Dovevo farmi, prima di uscire il segno della croce, come mi aveva detto mio zio. Allungai la mano e provai a intingerla nell’acqua.

Ma con mia grande sorpresa era completamente asciutta. Dove c’era stata l’acqua, ora c’erano solo i segni del calcare! Possibile che si era prosciugata in così poco tempo?

Sperai che ciò non fosse un problema, feci finta lo stesso di bagnarmi la mano e poi mi feci il segno della croce. Avanzando lentamente, mi diressi verso l’uscita cercando di non farmi notare. Con

centrato su quei movimenti non capivo più niente di quanto accadeva intorno. Guadagnavo un metro alla volta, avvicinandomi sempre più alla porta da cui era entrato. La distanza mi sembrò infinita.

Una volta sulla soglia mi girai per rifarmi il segno della croce e vidi che erano ormai tutti al loro posto dopo la comunione. Incominciai ad arretrare a piccoli passi. Il sacerdote, sull’altare, alzò le mani per dare la benedizione finale.

Mi ricordai di quello che mi avevo detto mio zio: “Devi essere fuori per quando finirà il segno della croce o resterai per sempre dentro.”

Ruppi gli indugi e con un sol balzo fui fuori dalla chiesa. Feci appena in tempo.

Con grande fragore, come mossi da una forza oscura i battenti delle finestre si chiusero, serrandosi di colpo, le porte interne sbattendo si bloccarono, tutte le candele si spensero insieme e il grande portone esterno di legno scuro, pieno di fila di chiodi, si chiuse dietro le mie spalle con gran fragore, come mosso da un gigante invisibile.

In ultimo si sentì il rumore delle serrature che scattavano e dei chiavistelli che giravano nelle toppe arrugginite.

In meno di un minuto, tutto tornò come prima, cancellando ogni traccia di quella funzione. La chiesa tornò ad essere quella che era stata fino poche ore prima: una vecchia chiesa abbandonata ormai in disuso, piena di polvere e di vetustà.

Strappai la cavezza dell’asina dal ramo a cui era legata, incapace di slegarla dal nervosismo, e mi gettai in sella all’animale. Il quale intuito il terrore che mi sconvolgeva, scappò da quel luogo di morte quasi di corsa.

Meno di un’ora più tardi ero a casa. Mia moglie mi raccolse mezzo morto sull’uscio di casa. Rimasi a letto per tre giorni con la febbre a 40°. Era stata un’allucinazione dovuta allo stress della guerra o alle paure che infonde la notte o avevo vissuto veramente quella brutta avventura?

Non lo so, circa 20 giorni dopo, quando mi fui ripreso, tornai, perché non sapevo darmi pace, di giorno perché di notte avevo troppo paura, in quei luoghi, ma fui incapace di trovare la chiesa dei morti. Chiesi informazioni, mi dissero che da quelle parti non c’erano chiese, solo un vecchio monastero. Sì, attaccata al monastero c’era una capiente chiesa dove un tempo i monaci celebravano le messe per i contadini dei dintorni, ma questa era chiusa da anni e non vi si svolgevano più funzioni. Era impossibile che qualcuno l’avesse riaperta sia pure per una notte, perché era pericolante e c’era il rischio di crolli.

Anche se la paura ancora mi faceva tremare le ginocchia, mi ci recai. Il portone corrispondeva, ma era tutto chiuso a chiave con una catena enorme. Non c’era neanche un buco per sbirciare all’interno e le finestre erano troppo alte per potermi arrampicare.

Mi recai in paese e cercai di rintracciare il sagrestano che aveva la chiave di quella chiesa. Quando lo trovai, promettendogli una grossa offerta per i poveri della parrocchia, mi ci feci accompagnare.

L’interno era come l’avevo visto, ma tutto era vecchio e in stato di abbandono. I banchi erano di legno marcio, dappertutto era coperto di polvere, ragnatele che piovevano dai tetti sui confessionali tarlati, candelabri disfatti, sedie rotte … era tutto in rovina. Erano anni che in quella chiesa non si svolgeva alcuna funzione.

Feci qualche passo all’interno. Riconobbi la grande croce di bronzo che si levava accanto all’altare. Ma allora non era stato tutto un sogno?

Quando mi girai, per tornare verso l’uscita notai l’acquasantiera di marmo: era proprio come l’avevo vista, completamente asciutta e con le crosticine di calcare. Avevo davvero partecipato a quella messa dei defunti?

Il sagrestano mi chiese spiegazioni sul perché avevo insistito tanto per vedere quella chiesa.

Io gli risposi: “L’ho vista in un sogno”

  • E corrisponde? _ Mi domandò ansioso.
  • Perfettamente _ Replicai.

Sono passati tanti anni, ma ancora oggi mi sembra tutto un incubo. Vissi davvero quell’esperienza extraterrena, ed esiste una messa di mezzanotte dedicata ai defunti a cui in rare occasioni partecipa anche qualche vivo per sbaglio?

Non so che pensare. Credo soltanto che, a volte, la differenza tra fantasia e realtà è così sottile, che è difficile distinguerne i confini.

Io tutt’ora sono convinto che ho veramente vissuto quell’incredibile avventura che sembra far parte di un romanzo dell’horror e che quella notte, i morti, come tutti gli anni, presenziarono alla messa celebrata in loro onore.

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ARTISTA VINCENZO BENINCASA VB...

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